Anche il mese di luglio del 1979 a Milano è sempre uguale. È pienissima estate, l’aria brucia sotto un sole martellante, e nonostante questo, il traffico, la gente,
la routine quotidiana scorrono inesorabili.
Doveva essere così anche l’11 luglio, ma purtroppo accade qualcosa che rovina il corso naturale del tempo.
Giorgio Ambrosoli, un avvocato italiano sulle pagine di quasi tutti i giornali all’epoca, è ammazzato sotto casa da un sicario americano ingaggiato dal banchiere siciliano Michele Sindona su cui stava indagando da tempo. Sono passati 38 anni da allora, ma la sua figura è ancora un esempio, di vivo e vegeto, di uomo che ha dato la vita per il Paese, nonostante il Paese non lo meritasse.
Ambrosoli, quella sera, era nella sua abitazione con un gruppo di amici a vedere un incontro di pugilato. Squilla il telefono, lui risponde, ma dall’altra parte non parla nessuno. A fine serata, accompagna in macchina i suoi amici e, tornando indietro, mentre sta parcheggiando, un uomo gli si avvicina spara quattro colpi. Era il mafioso italoamericano William Aricò, da pochi anni uscito dal carcere e pagato da Sindona ben 115mila dollari per compiere il fatto.
Ma perché viene ammazzato l’avvocato milanese, uno dei cadaveri eccellenti della strategia della tensione negli anni’70 e ’80? “É morto perché se l’andava cercando” risponde l’ex senatore e presidente del Consiglio Giulio Andreotti interrogato sulla questione nel 2010.
Si stava muovendo su un terreno davvero minato. Stava scoprendo troppe cose che mai nessuno avrebbe dovuto neanche tentare di annusare. Aveva cercato di mettere i bastoni tra le ruote a qualche “intoccabile” dell’epoca.
Stava facendo troppe cose “pericolose”, Ambrosoli. E soprattutto le stava compiendo in Italia, dove dinanzi a talune dinamiche, specie quelle bancarie, già da allora, bisognava solo girare la testa dall’altra parte.
Già, ma chi era Giorgio Ambrosoli? Nel 1974, a soli 40 anni, viene scelto dall’allora governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, come unico commissario liquidatore della Banca privata italiana, vicinissima al fallimento per colpa di un tizio chiamato Michele Sindona. Fin dalle primissime indagini, si rende conto che ci sono gravi irregolarità nei conti, i libri contabili sono stati falsati, Sindona ha consolidati rapporti con pezzi della politica, della finanza e della criminalità organizzata siciliana. Oltre a essere un personaggio potente e spericolato, con alle spalle Giulio Andreotti, mezza Democrazia cristiana e la loggia massonica P2 di Licio Gelli.
Fin dai primi tempi, si vede che questo avvocato milanese esperto di diritto fallimentare fa sul serio e ci va giù pesante. Per questo tentano di blandirlo e di convincerlo ad assumere un atteggiamento morbido nei confronti della proprietà, ovvero di Sindona. Che contro l’evidenza legale di un crac multimiliardario, tenta in ogni modo di ottenere un accordo con la Banca d’Italia, per salvare la sua creatura a ogni costo e con tutti i mezzi possibili.
Ambrosoli continua le indagini, e arriva, per un puro e fortuito caso, a scoprire che attorno alla Banca privata italiana fluttuano anche influenti società estere, con un notevolissimo flusso di denaro internazionale.
Sono coinvolti lo Ior di Marcinkus e la Democrazia cristiana, e non mancano esposizioni con coperture scarse o nulle e interessi girati «a nero» ai diretti, potentissimi, investitori.
La strategia adottata per fermarlo diventa un crescendo rossiniano. Dagli ammiccamenti si passa ai messaggi intimidatori, alle visite in studio di strani personaggi, poi alle minacce a lui e ai suoi collaboratori.
Ma lui non si ferma. “Per quattro anni e mezzo – ha ricordato qualche tempo fa il figlio Umberto, che ha scritto un libro sulla vicenda del papà – mio padre lavorò duro alla liquidazione della Banca Privata. I primi tempi, rimaneva in ufficio tutto il giorno. Lo vedevamo a casa solo i primi tempi».
Già, solo quattro anni e mezzo, purtroppo. Perché poi, l’11 luglio 1979, il suo compito e la sua vita sono finiti barbaramente. Quella mattinata aveva terminato la lunga audizione per la rogatoria che avrebbe riportato proprio Michele Sindona, il deus ex machina del suo assassino, in Italia.
Ai suoi funerali non si presenta nessuna autorità pubblica perché lo Stato decide di lasciarlo da solo anche da morto, oltre che da vivo. E di riabilitarlo moltissimi anni dopo.
Il potentissimo banchiere e faccendiere, invece, è condannato all’ergastolo nel 1986. Peccato che due giorni dopo viene trovato morto in cella per avvelenamento da cianuro di potassio…