Che sia chiaro a tutti coloro che ci leggono.
L’altra sera, nel corso della rapina alla gioielleria Panebianco, i malviventi hanno sparato per uccidere.
E, allora, rapida carrellata di quel che può significare un gesto così efferato. Una vita cancellata per volere di trucibalde mani avvezze al crimine. Una famiglia distrutta. Tutto un mondo fatto di sacrifici e rinunce, ma anche di lavoro diuturno e soddisfazioni, certo, che chi vive delinquendo non può comprendere, violentato e polverizzato.
Parentesi lunga senza parentesi, perché è bene che tutti ricordino e sappiano, soprattutto i giovani, infallibili soloni da tastiera.
Scrivo questo perché per un attimo ho ripensato a tre cari amici: Sabino, Pasquale ed Enrico. Solo loro sanno che significa davvero vivere sulla propria pelle una tragedia del genere. Vittime loro, forse ancora più dell’amato padre, di un omicidio che attende ancora giustizia, dopo trent’anni e passa.
Proseguiamo. Un assalto ad un’ora di punta della sera, nel cuore – non so più se ferito o marcito – della città. Segno inequivocabile di quanto questi loschi figuri si facciano beffe delle autorità varie.
E devo essere sincero. Mi ha stupito, e tanto, lo stupore di molti che pensavano fosse un’improvvisa manifestazione di violenza quella che era solo la vetta di una preoccupante escalation.
Valicato il sospetto che potessero vivere su Plutone, ho provato a darmi qualche spiegazione.
È stato comodo per decenni ficcare sotto il tappeto di cerimonie e processioni, sorrisi e inaugurazioni la polvere orrenda della nostra delinquenza. C’è e vive in mezzo a noi, purtroppo.
Basta spalancare occhi e narici per arguirlo. Abbiamo uno spaccio di sostanze stupefacenti che sta ammorbando ogni quartiere a seconda delle zone di influenza dei diversi clan. Basta inalare l’aere irrespirabile dei luoghi oggi positivamente ripopolati per capire che un mare di ragazzini ce li stiamo perdendo mentre battibecchiamo allegramente sul nulla.
C’è stato un tempo in cui un procuratore paragonò la culla dell’ulivo a Scampia. Seguirono lacerazioni di vesti addolorate. Eppure, nessuno considerò che si veniva da una media di una rapina al giorno, se non due addirittura. C’era da salvare il buon nome, non da risolvere un problema gravissimo e, quel che è peggio, dilagante.
Certo. È difficile parlare di mafia propriamente detta, qui da noi, ma di radicata mentalità mafiosa sì. E, forse, non vederla fa sì che la applichino pure tanti colletti bianchi – l’imposizione di amici degli amici in determinate condizioni, la richiesta di compensi extra salario non previsti da alcun iter legale, l’esclusione sociale di individui ritenuti “pericolosi impedimenti” al raggiungimento di scopi non proprio chiari, ovviamente personalissimi e per nulla a pro della comunità, e l’elenco potrebbe continuare all’infinito.
Dunque, facile previsione che ci auguriamo venga disattesa. Spentosi il clamore mediatico, una coltre di colpevole silenzio avvolgerà il fatto, le sue cause e le conseguenze.
La connivenza, nei casi in cui si incrociano malavita e società, è la prima tappa del cammino suicida verso la complicità.