Tutto nacque da un errore linguistico, pure grossolano.
L’espressione inglese era provvista persino di articolo determinativo e ad ingannare fu proprio la sua somiglianza con la suadente bevanda indiana.
Il participio travestito da gerundio (o viceversa, fate voi) fu rispettato.
Così, The dancing si trasformò in “Tè Danzante” e divenne subito una favola bellissima e irripetibile.
Incastonata in un’epoca mitica e lontana, che i ragazzi di oggi neppure possono immaginare.
Loro, infatti, se vogliono dare evidenza ad una iniziativa, creano l’evento su Facebook magari dal tablet, fanno la chat su whatsapp ed il gioco è fatto.
I tè danzanti videro la luce negli anni Ottanta, quando i computer erano rarissimi ed ingombranti calcolatori elettronici, che solo operatori del settore conoscevano.
Per realizzare quelle feste meravigliose, innanzitutto, bisognava avere mentalità imprenditoriale e fantasia, intraprendenza e capacità organizzative.
Un gruppo di amici rapido nell’accordarsi, un giro di telefonate da uno di quegli apparecchi massicci che forse aveva a casa Thomas Bell buonanima e si intavolava la trattativa col proprietario di una sala, che si sperava fosse comprensivo specie con le tasche anoressiche degli organizzatori.
L’Ariston – pronunciato rigorosamente alla francese, non è un caso che, quando cambiò gestione, mutò nome in Belle Époque – e la Tabernetta della Sala Dante erano fra le più gettonate.
E, allora, più si avvicinava il fatidico giorno e più cresceva la trepidante attesa.
Quella sera avresti finalmente smicciato la fanciulla della classe accanto che aveva serbato ancora un non so che di luminoso nel volto e di giunonico nel corpo splendidamente tornito – così pareva, specie nell’immaginazione – nonostante una frangetta vintage ed il grigiore di ore ed ore passate sui libri.
Già, perché, in quei giorni, illuminismo e romanticismo schiantavano di gran lunga il divertentismo che manco esisteva e la scuola era ancora una cosa seria, e se non studiavi i professori ti mazzolavano e, come se non bastasse, a casa ti aspettava il famoso “resto” dei tuoi genitori, che potremmo tradurre tranquillamente in “Tyson therapy”.
Comunque, l’incontro dei sogni con la bonona agognata presto svaniva perché, oltre che non filarti minimamente, lei – summa iniuria – si era già abbandonata fra le braccia del bullo stronzeggiante di turno.
E la circostanza, per te drammatica, diveniva l’insperato riscatto della compagna di classe, da sempre ignorata, che, quella sera, nel chiaroscuro della sala – mentre il deejay missava i vinili degli Earth, Wind & Fire e della Kool & the Gang, Mike Francis e Village People – offriva con nochalance il suo alito da cloaca ed i suoi mustacchi all’umberta (che quella sera miracolosamente erano invisibili) pur di rimediare una memorabile pomiciata (ehm, più o meno).
Quando andava bene, ma bene per davvero, si esibivano quelle straordinarie band che animavano tutto il sottobosco musicale di quegli anni, dove appassionati studenti di conservatorio si alternavano a talentuosi artisti irregolari.
E le feste in maschera, con le ragazze a truccare i ragazzi e gli abiti inventati artigianalmente o addirittura reperiti presso i costumisti del Teatro Petruzzelli?
Altra inarrivabile meraviglia…
In un angolo, di nascosto, fuori all’ingresso, al termine di onirici viaggi e note vorticanti, in attesa che qualche papà sacramentando venisse a recuperare il figlio ed un mucchio nutrito di amici, mani stringevano tremanti le prime sigarette, il cui puzzo doveva essere vinto da una buona dose di caramelle balsamiche, acquistate in quantità industriale nel pomeriggio sempre per evitare la terapia di cui sopra.
Insomma, prima, molto prima della “movida”, furono i tè danzanti a rallegrare la gioventù bitontina.
E i ragazzi, in quei giorni lontani e inobliabili, erano davvero spensierati e gioiosi.
O, forse, no. Ed era solo effimera illusione.
Chi può mai saperlo.
Si sognava e tanto bastava…