Credo che ieri sera, su quel dosso lustro di secoli dietro le mura antiche della città, tremassero d’emozione persino le pietre.
In special modo, quelle delle crepidini dei gradoni, dove stavano scritte sopra lunghe strisce bianche le parole del prof. Giuseppe Moretti.
Come sempre, anche quei versi tratti dal grazioso, scavante poemetto Re Cambeune de Vetonde, erano palpitanti di incanto e levità.
La voce di Damiano Bove, discepolo devoto del prof scomparso e artista egli stesso, che ha voluto fortemente la serata e la mostra di pittura (ma pure di manoscritti preziosi e fotografie significative) che rimarrà aperta fino a fine mese presso la sede dell’associazione Mo’Heart, ha intonato quelle poesie leggere come un sogno.
Poi è toccato a Nicola Pice farne una disamina acuta e certosina.
Dell’opera il professore ha colto “gli accenti vitali e l’atteggiamento attivo e agonistico nei confronti della tradizione, perché di Moretti colpisce l’invenzione intesa come rinvenire ed inventare, una duplicità di operazione, costitutiva di ogni cultura“.
“La sua scrittura poetica – ha notato a ragione Pice – nasce come un recupero linguistico senza alcuna indulgenza alla volgarità ed è a dire anche un recupero politico, nel senso di capitale morale della Polis da custodire, da vivere e da conquistare giorno per giorno, fondato sui cardini lavoro, sacrificio, solidarietà e speranza“.
Col maestro Marco Vacca, poi, ha ripreso a soffiare il vento dei giorni perduti. Che, con le sue parole, tutti quanti abbiamo ritrovato: “La nostra generazione ha vissuto con gioia il secolo scorso poiché si nutriva dei suoni delle giornate e del canto delle campane delle chiese, piene di evocatività e spiritualità. In quegli anni, la vita era tutta poesia. Anche se si sentiva un po’ ai margini della vita ecclesiastica, Peppino ha vissuto l”essenziale del messaggio cristiano: la testimonianza“.
Vacca ha calamitato l’attenzione di tutti i presenti su una tela che Moretti donò all’Episcopio e che non si sa che fine abbia fatto: “Esemplare del suo sentire è il il quadro dedicato alle Cinque Croci, con un cielo fatto di luci tutte soffuse d’una bruma che suggeriva il contesto evangelico e psicologico della morte. Ecco, solo la memoria che ritroviamo intatta ci arricchisce il cuore“.
Michele Muschitiello, speleologo dell’anima bitontina, ha sottolineato la versatilità artistica di Moretti e, recitando alcune strofe dell’opera “Quando più si soffriva” ha voluto ricordare come il professore fosse “un fine musicologo e un grandissimo autore di poesia in lingua, di stampo pascoliano, che sapeva narrare con dolente vena lirica le avversità del periodo bellico e l’impossibilità di poter studiare e la necessità di far sacrifici per sostenere tutta la famiglia“.
Lo studioso Oronzo Maggio, infine, ha annunciato che presto sarà pubblicata una raccolta delle creazioni morettiane e che, inoltre, nel prossimo mese si terrà la premiazione di un premio letterario la cui sezione in vernacolo è stata dedicata proprio a Peppino Moretti.
“Egli, infatti, oltre ad essere legato a Bitonto, si sentiva unito quasi da un cordone ombelicale a Santo Spirito. E proprio su quegli scogli, avvolto da silenzio e solitudine, avrà sentito leopardianamente la voce dell’infinito. Era un mistico che con le parole ed i colori ha saputo unire la terra al cielo“, ha concluso Maggio.