Fumate bianche, sporche d’industria. Il suono di una sirena,
lo spettro di una Taranto assediata da un autentico disastro ambientale. Siamo nel
rione Tamburi, a pochi passi dall’Ilva, e siamo come catapultati nella realtà delle
case – parcheggio. Si agitano panni e alberi al vento, che porta con sé ogni giorno
i veleni della fabbrica. Dalle finestre si affacciano persone comuni, quelle che
per sopravvivere s’inventano di tutto. Questo è l’ultimo piccolo capolavoro del
regista bitontino Pippo Mezzapesa, “SettanTA”, un documentario realizzato perRepubblica.it.
L’appello, alla telecamera, è uno e trino: “salute,ambiente,la-
voro”,un trinomio che trova sempre
più difficoltà di presa, soprattutto nel nostro Sud. Molte le testimonianze,
altrettanti i crucci che arrivano al cuore degli spettatori come enormi macigni:“chi
ci piangerà?”.
Il personaggio simbolo del corto è Enzo “Baffone“. Ogni giorno invita i tarantini a giocare i
numeri di una riffa del tutto particolare.
«Ho
deciso di non concentrarmi semplicemente sull’Ilva, ma su chi ne subisce la presenza –
ci spiega Pippo Mezzapesa –. Io amo le persone,
mi affascinano le vite, soprattutto di quella gente che nella sua semplicità si
crea degli spiragli di stravagante unicità. Baffone, il protagonista di Settanta,
è uno di questi meravigliosi individui. È un uomo che si è inventato un lavoro,
che ogni giorno cerca di sopravvivere nel quartiere più contaminato d’Europa,
che “vende il destino”, nella sua riffa
quotidiana, a chi dal destino è stato tradito. È un uomo che inconsapevolmente si
fa metafora e permette di raccontare con naturalezza un luogo e il suo dramma». “SettanTA” è uno dei numeri tirati
a sorte in una città con cui sono in troppi ad aver giocato. La mano che pesca
dal sacchetto quella di un innocente, di un piccolo bambino, speranza e salvezza
(?) di questa città.
Abbiamo incontrato, per saperne di più, Pippo
Mezzapesa.
La
storia ha un notevole impatto sociale. Il regista, oggi, che impegno ha o dovrebbe
avere nei confronti della società?
«L’unica
funzione che un regista deve avere è quella di raccontare al meglio delle storie,
cercando di conquistare, emozionare, stupire, commuovere, stravolgere lo spettatore.
La funzione sociale del regista non è per forza quella di mettere in risalto delle
urgenze e delle problematiche della società. Anche chi racconta semplicemente i
suoi sogni ha una funzione sociale. Io non credo nel cinema sociale, come si usa
intenderlo spesso. Io credo che “8e½” sia un grande film sociale. Perché la funzione
sociale di un artista è quella di creare un immaginario, di sensibilizzare la
società, di portarla verso una cultura del bello (nelle varie declinazioni che
la bellezza può avere) anche con prodotti in apparenza fini a se stessi, di
raccontare storie che aprano mondi, strade che stimolino curiosità e
conoscenza. Per me la funzione sociale di un corto su un suonatore di piatti che
non va a tempo di musica è la stessa di un doc sull’Ilva».
A partire
da “LidoAzzurro”, passando per “Zinanà”, i docu film, i lungo e i cortometraggi,
come riesci al meglio a piegare le tue esigenze, i tuoi sogni, le tue idee filmiche
alla macchina da presa?
«Più
che altro mi capita di osservare la realtà come se fosse filtrata dalla macchina
da presa. Tutto quello che faccio, che vedo, che leggo è finalizzato al racconto
per immagini. Fare questo non mi richiede un grande sforzo, è del tutto
naturale. È sempre stato così. Ho cominciato facendomi conquistare da una
famiglia dell’entroterra spaesata sul lungomare del mio paese, che si è
trasformata nella protagonista del mio primo corto (Lido Azzurro). Ho letto per inquadrature e visioni il romanzo di Desiati ‘Il Paese delle Spose Infelici‘. Con lo stesso approccio filmico mi
sono accostato al mondo delle bande musicali e dei cimiteri vuoti, il mondo di Pinuccio Lovero insomma,che tanto mi ha
suggestionato».
Da
dove nasce la tua passione per il cinema e cosa, nonostante la crisi culturale ed
esistenziale, ti conduce a continuare in questo mestiere… «La mia è una passione per l’emozione che
immagini, paesaggi, musica, volti e voci messi insieme riescono a dare. Mi sono
sempre emozionato di fronte a un film e immaginare di riuscire a trasmettere,
allo stesso modo, delle emozioni agli spettatori è meraviglioso. È come una droga, potentissima. Provoca
dipendenza e io, pur in tempi tremendi, senza senso, come quelli che viviamo,
in cui l’unico obiettivo sembra quello di tarpare le ali a chiunque voglia un minimo elevarsi dalla melma in cui si sguazza quotidianamente,
non riesco a disintossicarmi».
Sappiamo
bene che sei scaramantico, ma hai in cantiere nuovi progetti?
«Ne
ho in cantiere parecchi ma viviamo in un paese che ci ha abituato a cantieri
infiniti. Speriamo che il mio cantiere chiuda al più presto».