Per gentile concessione del quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno” pubblichiamo l’intervista del collega insigne e impareggiabile bracconiere di storie Nicola Lavacca a Franco Chimenti, autentico fuoriclasse del Bitonto durante gli anni della IV Serie.
SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Francesco
Chimenti ha trovato lontano da Bari la sua isola felice.
Il bomber per
antonomasia, il fromboliere dalle indiscutibili qualità balistiche, l’uomo dai
gol impossibili. Ne ha segnati oltre 180 nella sua carriera che raggiunse
l’apice negli anni settanta quando diventò l’idolo incontrastato, il
trascinatore e il capitano della Sambenedettese. Un vero attaccante di
razza anche se lui ha sempre preferito definirsi “calciatore universale”.
Otto
stagioni con la maglia rossoblù (93 gol in 264 partite) e quella
indimenticabile promozione in serie B nel campionato ’73-’74 quando si laureò
capocannoniere totalizzando 23 reti. Ancora oggi i tifosi della Sambenedettese
lo considerano un’icona e qualcuno lo vorrebbe anche come sindaco della città
marchigiana.
Nato nel quartiere Libertà cominciò a
tirare i primi calci ad un pallone sul campo del Redentore. “Lì avevo visto
giocare Biagio Catalano che per me era un mito ai tempi del Bari – racconta
Chimenti, oggi 68enne -. I primi tornei parrocchiali, le prime sfide. Spesso
con i miei coetanei facevamo le partitelle in piazza Risorgimento. Fu lì che mi
notò Michele Gravina portandomi al Bari. Avevo 16 anni e cominciai la trafila
nel settore giovanile partendo dagli allievi fino alla Primavera. Con me c’era
anche Pasquale Loseto. Il bello è che facevo il difensore. Anch’io sognavo di
poter esordire in prima squadra, ma forse i dirigenti di allora non credettero
molto in me”.
A 21 anni Chimenti andò in prestito al
Putignano, successivamente durante il militare disputò una decina di partite
con i piemontesi della Fossanese.
Nel frattempo trovò lavoro alle Officine
Calabresi dove faceva il fabbro saldatore. Il Bari lo cedette al Bitonto
nell’estate del 1967. Fu la prima svolta della sua carriera. “Non volevo fare
più il terzino. L’allenatore-giocatore del Bitonto, Sciancalepore mi spostò in
attacco. Avevo il numero 10, il vero centravanti era Carlucci. Vincemmo il
campionato conquistando la serie D. Realizzai 19 gol. L’anno dopo ne segnai 15.
Quello contro il Bisceglie su punizione al novantesimo fu memorabile e ci
consentì di raggiungere la salvezza”.
A Bitonto ha lasciato un ricordo
indelebile.
Poi il passaggio al Trani: 34 reti in tre
stagioni culminate nel salto in C. La fama di Chimenti cominciò a varcare i
confini regionali. Era un centravanti combattivo e atipico perché giocava a
tutto campo, calciava sia di destro che di sinistro, andava spesso a bersaglio
dalla lunga distanza e sapeva fasi valere nei colpi di testa. “Ho praticamente
fatto tutti i ruoli, anche il portiere per sostituire Paticchio espulso contro
il Mesagne proprio quand’ero al Trani: parai un rigore. Mi volevano quelli del
Frosinone, della Spal. Ma l’offerta migliore arrivò dalla Sambenedettese. Il
Trani era in crisi e a fine ottobre del ’72 il presidente mi disse di accettare
la proposta. Io non volevo trasferirmi perché avevo la famiglia a Bari, con mia
moglie Gianna e due figli. Sarebbe bastato giocare un paio di partite, poi al
mio ritorno mi avrebbe dato un assegno di 2 milioni di lire. Ma non andò
proprio così. Dopo le gare disputate contro Pisa, Montevarchi e Giulianova
tornai a Trani ma dei 2 milioni nemmeno l’ombra. Avevo preso un anno di
aspettativa alla Calabrese. Mi resi conto che forse era l’ultimo treno per fare
il professionista. Fu la mia fortuna perché a San Benedetto ho raggiunto il
massimo da calciatore e messo su casa”.
Quella Sambenedettese che giocava nel
mitico stadio “Ballarin” aveva il marchio inconfondibile di Chimenti che a 37
anni appese le scarpe al chiodo.
Durante i sei campionati di B
l’attaccante-corazziere dal tiro potente fu spesso ad un passo dalla serie A.
“Ricevetti richieste da Sampdoria, Verona, Napoli, Como, Ascoli e persino dal
Bari. Ma, avevo già 32 anni, a San Benedetto stavo bene con mia moglie e i miei
tre figli Cecilia, Antonio (ex portiere di Juve, Roma, Lecce ndr), Vito. Una
volta dopo un gol alla Juve in Coppa Italia sia Trapattoni che Zoff mi dissero
che in A non c’era un attaccante bravo con le mie caratteristiche. Anche Gigi
Riva mi fece i complimenti regalandomi la sua maglietta. Non ho mai avuto
rimpianti, anzi mi ritengo fortunato per quello che ho fatto e conquistato con
le mie sole forze”.