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Home » L’Analisi/Giovani, la violenza esplode dopo la reclusione del periodo Covid. Che fare?

L’Analisi/Giovani, la violenza esplode dopo la reclusione del periodo Covid. Che fare?

In tanti sottovalutano il deserto interiore e le devastanti conseguenze psicologiche della forzata assenza di socialità 

La Redazione by La Redazione
7 Settembre 2024
in Cronaca, Secondo Piano
L’Analisi/Giovani, la violenza esplode dopo la reclusione del periodo Covid. Che fare?
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DI VINCENZO ABBATANTUONO, DOCENTE, E ANGELO PALMIERI, SOCIOLOGO 

Al di là del presunto gesto psicotico, sicuramente espressione di una sofferenza psichica, come casus della mattanza commessa da Riccardo, riteniamo che non sia un epifenomeno ricomprendere, da un punto di vista interpretativo l’accadimento di Dugnano, e altri fenomeni di violenza ad opera di adolescenti, anche al periodo pandemico caratterizzato da misure restrittive e di privazione di adeguate opportunità di socialità che hanno determinato devastanti conseguenze psicologiche.

 

Nonostante la diffusa reticenza su questa concausa, è fuori discussione che la fase adolescenziale necessiti di aggregazione, di confronto e di supporto dei propri pari e che quella prolungata chiusura tra le mura domestiche abbia in qualche modo provocato stress acuto e cronico, senso di non appartenenza, isolamento, incrementato la dipendenza dai social, irritazione, alterazione ritmo sonno-veglia, depressione, disturbi dell’umore, del comportamento alimentare.

 

Sono stati condotti diversi studi in tal senso, in specie sull’impatto che ha determinato il lockdown sui giovanissimi e ciò che è emerso è un quadro allarmante sulla psichiatrizzazione. Un rapporto redatto dall’OMS nel 2022, e che include uno studio Global Burden of Disease, evidenzia come la pandemia abbia influenzato la salute mentale complessiva dei giovani che rischiano di sviluppare comportamenti suicidi e autolesionistici oltre a sintomi di disturbi mentali.

 

La VI rilevazione 2022 del Sistema di Sorveglianza Hbsc Italia (Health Behaviour in School-aged-Children – comportamenti collegati alla salute dei ragazzi in età scolare), coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità, in collaborazione con l’Università di Torino, Padova e Siena, rileva che il 41% degli adolescenti italiani ritiene che la propria salute mentale abbia risentito negativamente dell’isolamento sociale. Il 49% dei giovani italiani compresi nella fascia di età tra i 18 e i 25 anni hanno dichiarato di aver sofferto di ansia e depressione a causa dell’emergenza sanitaria ma il dato significativo, da un punto di vista sociologico, è legato al fatto che il 62,1% ha modificato sensibilmente la propria visione del futuro.

 

È quanto emerge dal “Rapporto Generazione Post Pandemia: bisogni e prospettive dei giovani italiani nel post Covid 19”, elaborato in collaborazione col Censis, Consiglio Nazionale dei Giovani e Agenzia nazionale dei Giovani a giugno del 2022. Secondo una nuova indagine condotta dal Consiglio Nazionale dei Giovani, l’organo consultivo cui è demandata la rappresentanza dei giovani nel rapporto con le Istituzioni per ogni confronto politico, 3 giovani su 4 avvertono l’esigenza di un supporto psicologico e solo il 27,9 % ha ricevuto l’intervento necessario, evidenziando così una evidente criticità organizzativa che comporta ripercussioni sul loro benessere complessivo. Secondo la ricerca, il 35% ha avvertito la necessità di supporto psicologico ma non si è rivolto a nessun professionista, mentre l’11, 2% si è rivolto privatamente ad un professionista senza alcun beneficio.

 

Quali azioni

 

È auspicabile l’introduzione della figura dello psicologo di base nel Sistema Sanitario Nazionale, come già sperimentato in alcuni distretti sanitari, perdurando e aggravandosi tuttavia l’incapacità ormai cronica della sanità pubblica che non è ormai più in grado di assolvere alla sua missione a causa delle ferite mortali inferte dai tagli lineari e processi di privatizzazione in atto da decenni.

 

Da tempo si auspica l’inserimento della psicoterapia nei servizi territoriali che si occupano di salute mentale, atteso che sin dal 2018 il trattamento psicoterapico è stato introdotto tra i livelli essenziali di assistenza. Ed invece continuiamo a non garantirlo per assenza di operatori, professionalità e per mancanza di cultura da parte dei direttori dei servizi. Nel nostro Paese il Veneto è l’unica regione che attualmente ha attivato un servizio di psicoterapia per giovanissimi, altrove non si registrano esperienze altrettanto significative.

 

Del resto, i tempi di attesa per una semplice visita chirurgica sono indefiniti, malgrado le rassicurazioni pre-elettorali del Governo, immaginiamo che questo capitolo rientri nelle ultimissime occupazioni della nostra classe politica gerontocratica. È superfluo affermare che i servizi di psicologia e psichiatria vadano ridefiniti nel loro complesso da un punto di vista di assetto organizzativo. Da tempo si parla della figura dello psicologo scolastico, di una rete territoriale in grado di assicurare l’assistenza e il supporto psicologico e di prevenire l’aggravamento dei disagi derivanti dall’emergenza epidemiologica. In molte scuole, specie del Nord, gli sportelli psicologici esistono da tempo, anche se in regime di semi-clandestintà per gli esigui fondi riservati dalle scuole e per la preconcetta ostilità dei genitori che spesso non collaborano, per paura di finire nelle grinfie dei servizi sociali o di dover fare i conti con il malessere dei propri figli.

 

Eppure, con la cascata di milioni del PNRR in arrivo, sovente destinati ad acquisti bizzarri e non alla promozione della salute degli allievi, ci sarebbe la possibilità di rafforzare la presenza di psicologi ed educatori nelle scuole a supporto dei docenti, un radar sempre funzionante in grado di intercettare i primi segnali di disagio individuale e relazionale, magari rinunciando ad un paio di stampanti 3D di cui si potrebbe francamente fare a meno.

 

È altresì auspicabile favorire la promozione e adozione di un approccio in grado di garantire accessibilità, tempestività della presa in carico, continuità delle cure e personalizzazione del progetto di intervento, promuovere processi di integrazione e regolazione tra i servizi di salute mentale e di supporto psicosociale all’interno di tutti gli aspetti della risposta globale. L’emergenza pandemica, ha altresì posto l’accento, sulla necessità di un poderoso investimento delle risorse pubbliche. Nel 2020 i governi di tutto il mondo hanno speso in media poco più del 2% dei loro budget sanitari per la salute. Ad oggi, il nostro Paese, si colloca fra gli ultimi posti in Europa per quota di spesa sanitaria investita in salute mentale, destinandovi il 3,4% mentre i Paesi ad alto reddito ne dedicano circa il 10%. Inoltre registriamo alcune lacune nella progettazione delle Case di Comunità previste dalla Missione Salute del PNRR, ovverosia nell’Intesa Stato-Regioni e negli standard dell’Agenas, pare che la figura dello psicologo non sia contemplata.

 

Appare del tutto evidente che la crisi sanitaria si è trasformata in crisi psicologica che ha particolarmente bersagliato la fascia di popolazione più vulnerabile, ovverosia quella più giovane. A chiedere aiuto sono soprattutto gli adolescenti ma anche la fascia di età 18-35 anni, richiesta quest’ultima che è cresciuta del 100%. Si è così dipanato uno scenario drammatico dinanzi ad un servizio pubblico carente che finisce per spingere molti a ricorrere ai costosi servizi privati. Non si può sottacere che andare oggi da uno psicologo può costare dai 40 ai 60 euro a seduta, con possibilità di ulteriore lievitazione di costo!

 

Non dimentichiamo che i fenomeni di aggressività tra giovani e giovanissimi non sono solo quelli più clamorosi, come quello di Dugnano, ma anche quelli più quotidiani e diffusi: ci riferiamo a quello delle cosiddette baby-gang, che ormai hanno stancato i media ma che tuttavia continuano ad occupare l’attività delle forze di Polizia sul territorio. Basta attivare un banale Google-alert per ricevere ogni giorno decine di notizie su scontri e aggressioni da parte di bande semi-organizzate di adolescenti che attaccano coetanei con una violenza inaudita su cui continuiamo inutilmente ad interrogarci.

 

Le patologie psichiatriche, in forte aumento tra il target giovanile, continuano ad essere nella migliore delle ipotesi, medicalizzate senza abbracciare il senso più profondo del disagio. Quest’ultimo si manifesta nella fatica a sperimentare socializzazioni rassicuranti ed identificative unitamente ad una comunicazione sociale che sospinge ogni ferita e sofferenza verso la zona oscura dell’invisibile. Le cause del malessere sono molteplici, ampiamente indagate dalla letteratura. Non c’è dubbio che il mondo stia cambiando a passo veloce, i social media, la rete, l’intelligenza artificiale determinano un livello entropico altissimo.

 

Non serve la demonizzazione dei social, come autorevoli commentatori fanno, se abbiamo abdicato da tempo nel nostro crasso Occidente alla famiglia, persino alla religione, in nome di una cancel culture che butta via il bambino con l’acqua sporca, facendo il deserto morale e culturale. Sempre più irretiti nell’illusoria forma di automedicazione delle sostanze psicoattive, molti giovanissimi avvertono il senso profondo di angoscia di chi non è mai stato educato ad affrontare il dolore e la morte come possibilità.

 

Dunque, per alleviare il senso di insicurezza e frustrazione abbiamo optato per una risposta frettolosa e meccanicistica di tipo farmacologico di contro a un percorso in cui – come suggerisce Eugenio Borgna- non si confondano la tristezza e la depressione. La malinconia non va immunizzata da psicofarmaci che impedirebbero questo necessario processo introspettivo.

 

Pur nella loro complessità, molti drammi giovanili sono originati dalla mancanza di comunicazione con il mondo degli adulti, troppo spesso distratto e fors’anche incapace di mettersi in sintonia con le nuove generazioni. C’è una carenza di comunicazione che se messa in campo potrebbe prevenire molti fattori sociali di rischio.

 

È davvero sempre più in crisi la forma della comunicazione educativa. L’educazione è minacciata anzitutto dalla crisi dell’impersonalità (Claudio Baraldi, 1999), dovuta all’emergenza della personalizzazione che porta alla demotivazione, da una parte, e alle esigenze di inclusione della persona, dall’altra. In secondo luogo è ostacolata da percorsi di socializzazione che non possono essere trattati educativamente. Questi due fattori concorrono a definire il problema generale della forma della comunicazione educativa che è sempre più in difficoltà.

 

Il sistema scolastico va baricentrato più su relazioni ispirate all’ etica del volto” che a programmi didattici di cui molto spesso si avverte solo la fretta di portarli a compimento; sappiamo come la scuola favorisca le relazioni tra coetanei e dunque costituisca un ammortizzatore dei conflitti adolescenziali. Abbiamo urgenza di riscrivere un piano di interventi ad ampio respiro per le giovani generazioni.

 

Ormai va raccolta la sfida di paradigmi culturali, organizzativi ed educativi sinora indebitamente tenuti a distanza. È tempo di ridare forza alla speranza e nuova dignità alla partecipazione politica, in senso lato, per il bene dei nostri figli. Se il mondo degli adulti opta per il deserto della comunicazione diventa inevitabile per il mondo giovanile annegare in un deserto di senso che obnubila ogni sentimento emotivo e allora, come dice Galimberti, “ tutte le parole che invitano all’impegno e allo sguardo volto al futuro affondano in quell’inarticolato all’altezza del quale c’è solo il grido, che talvolta spezza la corazza opaca e spessa del silenzio che, massiccio, avvolge la solitudine della loro segreta depressione come stato d’animo senza tempo, governato da quell’ospite inquietante che Nietzsche definisce: «Nichilismo: manca il fine, manca la risposta al “perché?”. Che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi perdono ogni valore».

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