di ANGELO PALMIERI
Sfruttato e abbandonato: è morto così Satnam Singh il giovane bracciante di origine indiana lasciato agonizzante con il braccio destro troncato in un incidente sul lavoro in una azienda agricola nelle campagne di Latina.
Non passerà molto tempo e questa triste storia la dimenticheremo, come è già avvenuto per molte altre morti a causa di un caporalato disumano. La nostra società dei consumi, quella dell’usa e getta e degli scarti, ha smarrito il sentimento di compassione avvertito come virtù personale e come emozione sociale di base. Una prevedibile rimozione collettiva che lascia campo libero all’intermediazione illegale e allo sfruttamento di lavoratori irregolari prevalentemente nel settore agricolo, ma non di meno nel campo della edilizia, del commercio e turismo.
Quanti Satnam abitano nei gironi infernali del nostro Paese, da Nord a Sud?
I rapporti dell’Osservatorio Placido Rizzotto registrano una geografia del caporalato nel nostro Paese articolata in 405 aree in cui sono emersi episodi di sfruttamento: di queste 194 sono nel Sud, mentre le restanti 211 si trovano al Centro e al Nord.
I diversi approfondimenti a riguardo hanno portato alla ribalta le diverse figure apicali standardizzate nel reclutamento della manodopera e un sistema di società finalizzati solo a far entrare clandestinamente gli immigrati con falsificati contratti di lavoro.
Lo rilevano gli inquirenti e lo confermano i sindacati: spesso dietro questo traffico ci sono società fantasma che offrono un posto di lavoro fittizio, utile solo a ottenere un nulla osta e far entrare un immigrato, che difficilmente dopo sottoscriverà un contratto regolare.
Nella relazione degli inquirenti si legge che c’è una «proliferazione di aziende fantasma – spesso gestite dalla criminalità organizzata – le quali, mediante l’assunzione e il successivo licenziamento di falsi braccianti agricoli, assicurano un significativo guadagno sulle indennità percepite dai loro dipendenti». peraltro «a danno delle casse dell’Inps», perché talvolta queste società servono anche solo per fa «raggiungere il numero di giornate lavorative che danno diritto a prestazioni previdenziali».
A questi imprenditori disonesti, che non assumono e sfruttano i braccianti si aggiungono impiegati o funzionari corrotti o corruttibili appartenenti alla Pubblica Amministrazione.
Costretti a miserabili paghette di 5 euro ma anche per molto meno, questi lavoratori vivono forme di schiavitù inenarrabili, come emerso in alcune indagini dell’agro pontino, nutriti con gli scarti dei pranzi destinati agli animali da cortile.
Dunque, non casi sporadici ma un sistema illegale ben radicato da anni senza alcuna forma di contrasto operata dai diversi attori deputati che fosse serio, programmato e lungimirante. Registro personalmente nelle storiche vicende di sfruttamento una poca incisiva opera di denuncia del sindacato e una politica afona e disorientata e una società civile culturalmente incapace di farsi comunità e di costituirsi avamposto di resistenza e denuncia.
Viene meno il paradigma Kuhniano secondo cui ogni cambiamento strutturale è preceduto da quello culturale. Abbiamo ad esempio, per citarne solo alcune, realtà come la Piana di Sibari o Borgo Mezzanone, che continuano ad alimentarsi di razzismo strisciante e inconfessato, dove la presenza dello Stato è rappresentata da sporadiche operazioni di polizia che tuttavia non restituiscono alle campagne assolate di quei territori, condizioni di democrazia e affermazione compiuta dei diritti. Resteranno ghetti per invisibili stritolati da schiavitù, sfruttamento e morte.
Le comunità viciniori hanno responsabilità ad organizzare risposte collettive di denuncia ad una criminalità organizzata vessatoria e crudele al pari di una politica che dovrebbe forse ammettere che nell’economia italiana esiste un problema atavico e radicato ovvero il sommerso con il nostro “made in italy” sporco di sangue dei braccianti sfruttati nei campi. Vale 68 miliardi il giro d’affari del lavoro nero e del caporalato in Italia.
La stasi inerziale della politica, a scanso di equivoci bipartisan, continua a perpetuare conseguenze possibili di nuovi Satnam. Mancano ispettori del lavoro che effettuino attività di controllo. La normativa ha previsto nel 2018 l’istituzione di un tavolo sul caporalato che attualmente risulta prorogato fino al 2025 a cui aderiscono diversi attori importanti. Per una cecità politica insieme a quella morale il tavolo non è stato convocato nemmeno dopo la morte di Satnam.
Ma in quest’ultima vicenda del bracciante agricolo mutilato da una macchina agricola mentre lavorava in condizioni disumane e abbandonato sulla soglia di casa colpisce l’affermazione assordante dell’indifferenza di un intero Paese, segno come scrive in suo recente articolo Enzo Bianchi, della morte della compassione. Un’osservazione lucida e attenta ci spinge alla triste constatazione che siamo sempre più speditamente proiettati verso la barbarie, che la nostra vita è mancante di fiducia, che le relazioni con l’altro sono prive dell’etica del volto, del riconoscimento della loro infinita dignità. La compassione è un appello a condividere la vulnerabilità dell’altro, il dolore in cui uno si trova, senza nessuna condizione. Non abbiamo scorciatoie per combattere il male se non quella di avvertire compassione ed esercitarla. Forse non abbiamo condiviso abbastanza la passione di Satnam. Non abbiamo udito le grida della sua sofferenza e dei tanti miserabili che forse continueranno a morire come lui.
Sul tema dello sfruttamento illegale del lavoro e della morte del bracciante agricolo pesano come macigni le parole del Presidente della Repubblica Mattarella: “Questo triste fenomeno va ovunque contrastato con rigore e fermezza. Esso va eliminato totalmente, evitando di fornire l’erronea e inaccettabile impressione che venga tollerato ignorandolo. Contro i valori di solidarietà e di civiltà stridono – gravi ed estranei – episodi e comportamenti disumani come nella triste vicenda di Satnam”.