La giustizia. Uno dei temi che, da 30 anni, sin dall’avvento di Tangentopoli, ha occupato il dibattito politico della cosiddetta Seconda Repubblica, tra inchieste della magistratura, scontri tra potere giudiziario e potere esecutivo, tentativi di quest’ultimo di screditare gli esponenti del potere giudiziario per difendere i propri esponenti coinvolti in casi di corruzione o per difendere Silvio Berlusconi, più volte finito sotto l’occhio della magistratura che ha indagato sulle ombre che avvolgono la sua ascesa economica e la sua carriera politica.
Non solo. L’accento sul tema della giustizia ha anche portato al protagonismo eccessivo e all’ascesa di magistrati che, sfruttando un’ideologia moralista improntata al massimalismo giustizialista post Mani Pulite, hanno intrapreso una carriera politica che ha generato partiti personali come Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, ha avvantaggiato l’ascesa di altri giudici in politica, l’emergere di una retorica antipolitica volta ad identificare la politica nel suo insieme come luogo di malaffare e corruzione, perseguendo l’errore della stagione di Tangentopoli. Retorica che è stata alla base dell’ascesa di Beppe Grillo e del suo Movimento 5 Stelle, del giustizialismo giornalistico di Marco Travaglio e del Fatto Quotidiano. E che ha portato la politica italiana ad abbandonare e a lasciar morire i suoi vecchi protagonisti, ormai screditati. Parliamo dei partiti di massa che sono stati il fulcro della vita politica nella Prima Repubblica e che, sopraffatti dal populismo, dall’antipolitica, dall’egemonia neoliberista che ha sempre visto come un ostacolo quegli organismi di intermediazione, sono stati prima denigrati e poi scaricati in quella che fu la “grande slavina” di cui parlò lo studioso Luciano Cafagna, evidenziando come, nel tentativo di eliminare la corruzione nei partiti, si sia buttata “l’acqua sporca insieme al bambino al suo interno”. Si identificò la forza del partito politico come causa della corruzione. Quando, invece, era la debolezza dei partiti politici, la diminuzione delle sue risorse, a fronte di un innalzamento dei costi derivati anche dall’evoluzione delle modalità di comunicazione, ad aver portato l’aumento del malaffare in politica.
Ma torniamo a noi e ai tentativi di riforma della giustizia. Che sono stati tanti. In gran parte portati avanti dal centrodestra berlusconiano, mentre il centrosinistra più spesso ha cavalcato l’istanza giustizialista, affiancando la magistratura. Alcuni tentativi sono andati in porto, altri falliti, sopraffatti dalle critiche dell’opposizione. O dagli infausti esiti referendari. Come accadde nel 2022, quando l’intero paese fu chiamato ad esprimersi su cinque quesiti referendari, riguardanti proprio la giustizia.
Il primo quesito riguardava la richiesta di abrogazione del decreto attuativo della legge Severino che prevede l’incandidabilità, l’ineleggibilità e la decadenza per i parlamentari, i membri del governo, gli europarlamentari, gli amministratori regionali e locali che siano stati condannati in via definitiva per delitti dolosi o preterintenzionali, nonché per gli amministratori regionali o locali che, indiziati per l’appartenenza ad associazioni mafiose, siano stati destinatari di una misura di prevenzione, disposta con provvedimento definitivo.
Il secondo verteva sulla volontà di eliminare il “pericolo di reiterazione del medesimo reato” dai criteri per disporre una misura cautelare personale.
Il terzo, nell’obiettivo di ottenere la separazione delle funzioni dei magistrati e l’eliminazione del sistema delle cosiddette “porte girevoli“, chiedeva l’eliminazione delle norme in materia di ordinamento giudiziario che consentono il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa nella carriera dei magistrati. Un obiettivo che da anni si era imposto il centrodestra a guida Berlusconi, senza successo.
Il quarto quesito mirava a introdurre la possibilità per avvocati e professori universitari di materie giuridiche di partecipare con diritto di voto ai Consigli giudiziari, organismi territoriali per la valutazione sull’operato dei magistrati.
L’ultimo referendum proponeva di abolire l’obbligo per un magistrato che voglia essere eletto nel Consiglio superiore della magistratura di presentare dalle 25 alle 50 firme di sostegno alla candidatura. L’obiettivo era di limitare il correntismo nella magistratura.
Quesiti referendari inizialmente promossi dal “Comitato Giustizia Giusta”, costituito dalla Lega per Salvini Premier e dal Partito Radicale Transnazionale.
L’esito fu sfavorevolissimo. Il fronte referendario fu sopraffatto dall’astensione, in crescita sin dalla fine degli anni ’70, ma che in quell’occasione raggiunse il suo picco.
In tutt’Italia, solo il 20,9% degli aventi diritto al voto volle esprimersi sui cinque quesiti referendari. Percentuali che non consentirono di arrivare al quorum del 50% + 1 e che quindi non resero valida la votazione. A Bitonto, complice le concomitanti elezioni amministrative, oltre il 60% votò, sebbene qualcuno (il 3% dei bitontini recatisi alle urne) abbia deciso di non ritirare le cinque schede. O di farsene consegnare solo alcune. Perché, oltre ad un astensionismo legato al disinteresse, ci fu quello consapevole di chi preferì non votare per non consentire il raggiungimento del quorum.
Per il referendum 1 votò il 60,81% dei votanti, sul secondo 60,82%, sul terzo 60,77%, sul quarto il 60,81%, sull’ultimo il 60,82%. Di questi, la gran parte respinse le prime due richieste di abrogazione della Legge Severino e dei limiti alla custodia cautelare. Mentre vinse il sì per gli ultimi tre quesiti. Il 63,29%, il 61,12% e il 61,59% avrebbe voluto infatti rispettivamente la separazione delle funzioni dei magistrati, l’equa valutazione dei magistrati e la riforma del CSM.
Ma tutto ciò nulla poté contro un’astensione mai così alta in tutta Italia. Fu l’appuntamento elettorale con il più basso numero di votanti nella storia repubblicana. Per il momento.
Fenomeno che, c’è da sottolineare, è maggiormente visibile nei referendum, tradizionalmente meno partecipati, ma che è in fortissimo aumento anche negli appuntamenti elettorali per le amministrative, come dimostrato dal voto del 2022, a cui parteciparono, come già accennati, poco più del 60% degli aventi diritto. Dato sorprendentemente basso per un tipo di appuntamento elettorale tradizionalmente più partecipato.