Tra le volontà espresse dal centrodestra, nel programma presentato per le politiche del 2022, tra i principali punti il disegno di legge sull’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario.
Presentato dal leghista Roberto Calderoli, il progetto punta al riconoscimento dell’attribuzione alle regioni a statuto ordinario di un’autonomia legislativa su materie di competenza concorrente e, in tre casi, di materie di competenza esclusiva dello Stato. Insieme alle competenze, le regioni possono anche trattenere il gettito fiscale, che non sarebbe più distribuito su base nazionale, in base alle necessità collettive.
La proposta ha suscitato perplessità numerose e significative da parte dell’opposizione e non solo. Essendo, però, la materia abbastanza ostica e non facilmente comprensibile da larghi strati della popolazione, non sembra essere argomento di stretta quotidianità. Nonostante gli effetti sarebbero molto rilevanti per i cittadini e sui loro diritti sociali per materie delicatissime come istruzione, lavoro, sanità, giusto per fare gli esempi più significativi. Si rischierebbe, infatti, come denunciano le opposizioni, di creare un’insanabile divergenza tra regioni povere e regioni ricche, a vantaggio di queste ultime, come ha evidenziato Gianfranco Viesti, parlando di «secessione dei ricchi», sottolineando come alla base del progetto ci siano crescenti egoismi territoriali e ribadendo il rischio di politiche complesse e frammentate e livelli di cittadinanza dispari tra una regione e l’altra.
Quello di Calderoli è solo l’ultimo tentativo, in ordine temporale, di attuare il sogno federalista della Lega (sogno che negli anni ha preso il posto del precedente progetto apertamente secessionista) e, al momento, non sappiamo come si svilupperà la vicenda, essendo ancora tutto in itinere.
Quindi, più che concentrarci sulla mera attualità, che merita ben altra sede, limitiamoci a parlare del tema del riconoscimento di maggiori forme di autonomia regionale. Tema che si è imposto al centro del dibattito in questi ultimi anni, soprattutto a seguito delle iniziative intraprese da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna a partire dal 2017. Un argomento che abbiamo già accennato in più occasioni, all’interno di questa rubrica, quando abbiamo raccontato la nascita delle regioni, nel 1970, inizio di un percorso che ha portato i territori a chiedere sempre maggiore autonomia. Specialmente quelli più ricchi, con l’obiettivo di avere maggiori risorse a disposizione e non dividerle con il resto del paese, venendo meno ad un principio solidaristico tipico di impostazioni basate più sulla centralizzazione. Motivo per cui, a premere sul tema, sono sempre state le regioni settentrionali, più ricche. Che dimenticano, tuttavia, il contributo storico delle regioni meridionali a quella maggiore ricchezza e lo svantaggio da sempre subito dal Mezzogiorno nell’attribuzione delle risorse.
La continua riproposizione della questione, spiegò Viesti, è figlia dell’indebolimento del sentimento nazionale; dell’emergere di un populismo liberista mascherato dalla retorica del merito e dei territori virtuosi; della sfiducia nella capacità collettiva del paese di superare le difficoltà; dell’egoismo dei quartieri, delle città, dei territori. Di decenni di demagogia, largamente penetrata nell’intero arco dello schieramento parlamentare (talvolta anche a sinistra), secondo cui chi ha più reddito, chi vive in territori più forti, dato che paga più tasse “merita” di più. Sovvertendo così le basi costituzionali solidaristiche su cui è nata la repubblica italiana.
Siamo tornati, nel corso della presente rubrica, sul tema del regionalismo parlando della riforma del Titolo V della Costituzione italiana, nel 2001. Una riforma, proposta dal centrosinistra, intenzionato a scippare alla Lega Nord un elettorato che era più sensibile al tema federalista. Fu approvata con la vittoria del Sì al referendum costituzionale di quell’anno e che, negli anni, ha mostrato tutte le sue criticità finendo con l’indebolire la coesione tra le regioni più ricche e quelle più povere, a vantaggio delle prime e con il creare numerosi diverbi tra stato e regioni sulle proprie competenze.
«Ci troviamo in una situazione imbarazzante, perché la destra ha tratto vantaggio dalle politiche del centrosinistra» disse l’ex senatore ed europarlamentare Giovanni Procacci, accusando le gravi responsabilità sia del governo Gentiloni (2016-2018), in merito alla nuova proposta di riforma di quell’anno, sia del governo Amato, in carica nel 2001, quando fu varata la riforma del Titolo V.
Il governo Conte riprese poi in mano la questione, con l’allora ministro degli Affari regionali Francesco Boccia che annunciò come un disegno di legge quadro sull’autonomia differenziata fosse sul tavolo del consiglio dei ministri.
Come già accennato, il tema si impose nuovamente nel 2017, a seguito delle iniziative intraprese da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna (quest’ultima governata dal centrosinistra, al contrario delle prime due). L’obiettivo era siglare con il governo centrale accordi preliminari su materie di prioritario interesse sulla loro autonomia decisionale, tra cui politiche ambientali, salute, tutela del lavoro.
Nel frattempo, c’è stata la pandemia, che ha messo in luce le non poche criticità di un sistema al cui interno diverse sono le disparità e le incertezze legislativo sulle competenze di stato e regioni. Specialmente in ambito sanitario.
Tornare ad uno stato totalmente centralizzato è impossibile, ma è necessario anche porre un freno ad egoismi regionali che potremmo quasi definire “nazionalismo territoriale”, per usare una definizione che utilizzò la politologa Nadia Urbinati in un editoriale su Domani del dicembre 2020: «Un nazionalismo si manifesta da alcuni anni (e non solo in Italia) in due forme diverse tra loro: gruppi nazionali economicamente forti, concentrati in territori omogenei, hanno approfittato della debolezza dello stato, per accrescere le loro prerogative sul governo. La rivendicazione di una autonomia goduta in ragione dei “meriti” (ricchezza prodotta sul territorio regionale) è come un’estensione a livello nazionale di quel che avviene a livello europeo e che tanto deprecano: gli stati del nord Europa rifiutano una condivisione solidaristica con gli stati non virtuosi per le stesse ragioni per le quali le regioni del nord Italia mettono in discussione la solidarietà con le regioni del sud. Si tratta, in entrambi i casi, di una rivendicazione di diverso trattamento da parte di chi sta meglio. Ignorando o omettendo il fatto che il benessere di quelle regioni è sempre stato conquistato anche a causa della persistente indigenza delle popolazioni del sud, una condizione funzionale all’emigrazione e alla manodopera a basso costo. L’identità per esclusione che il regionalismo differenziato suggerisce corrisponde a una secessione morbida. Il nazionalismo dei territori regionali ricchi vuole dissociarsi dalla “nazione larga”. Il processo di unità nazionale di ottocentesca memoria si era ripromesso di costruire quel “noi politico” (la nazione) attraverso la scuola pubblica, le politiche di previdenza sociale, il welfare […]. Ebbene gli italiani, dopo periodi di grande espansione sociale del “noi politico”, si “fanno” ora secondo gruppi regionali differenziati e tra loro sempre più distanti. È come se riconoscessimo dii avere due nazioni e due nazionalismi: uno sposato al neoliberismo e uno sposato all’aiuto pubblico. Due traiettorie che sono per diverse ragioni esposte ai rischi del populismo xenofobo: quello delle regioni del nord per difendere il loro tenore di vita contro la condivisione con gli “altri italiani”. E quello delle regioni del sud per mettere una diga al loro declino contro “altri umani” che arrivano da fuori. Il nazionalismo dei vulnerabili è il prodotto più inquietante del liberismo senza moderazione».
Sul tema, a Bitonto, è intervenuto anche il centro sinistra bitontino.
A febbraio 2023 intervenne il Partito Democratico, aderendo all’iniziativa di raccolta firme “Giù le mani dalla scuola”, incentrata sulla questione dell’istruzione. Ad aprile 2023, intervenne il Movimento 5 Stelle, con un convegno dal titolo “Autonomia differenziata: Le conseguenze per il Meridione”. E, sempre ad aprile 2023, scese in campo anche il Partito Socialista Italiano, con un incontro sul tema “Autonomia differenziata e regionalismo, un pericolo per l’unità della Repubblica?”.
Così scrissero i socialisti della sezione bitontina in occasione di quell’iniziativa, invitando i cittadini ad aderire alla raccolta firme contro l’autonomia differenziata: «La locale sezione del Psi e l’associazione NovaRes, consce delle sfide che attendono la comunità socialista, chiamano la cittadinanza alla mobilitazione per contrastare un pericoloso progetto di legge in grado di impattare in modo significativo sulla vita dei cittadini del Sud in primis, sostenendo la raccolta firme a sostegno della legge di iniziativa popolare tesa a contrastare i deleteri effetti della riforma perseguita da questo Governo».