«Solo Italexit è dalla parte degli italiani. Solo Italexit denuncia il malaffare dei vili e menzogneri politicanti di questa dittocrazia. Partiti succubi dell’Unione Europea asservita all’atlantismo coloniale e guerrafondaio. Italexit unica speranza per l’Italia. Votare Italexit significa dare dignità ad un popolo per riprendersi la propria sovranità. Votare Italexit significa ritornare a sperare in un’Italia libera e indipendente artefice del proprio destino e padrona della propria moneta».
Recitava così, l’appello al voto della sezione bitontina di Italexit che, alle politiche del 2022, sostenne il concittadino Giuseppe Masciale nella sua corsa verso la Camera dei Deputati. Corsa rivelatasi vana, in quanto non portò ad alcuna elezione.
Nato nel 2020 dall’ex pentastellato Gianluigi Paragone, giornalista, conduttore televisivo e senatore, Italexit è partito politico che fonda la sua identità sull’euroscetticismo. Caratteristica evidente già dal nome, che riprende il termine “Brexit”, coniato per indicare l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea.
Cresciuto fortemente con la pandemia da covid-19, l’antieuropeismo è stato uno dei protagonisti non solo dell’ultimo appuntamento elettorale nazionale, ma anche delle cronache politiche degli ultimi anni, tratto distintivo delle formazioni populiste principalmente della destra sovranista, ma non solo. Formazioni che sempre più spesso hanno utilizzato una propaganda antieuropeista per incrementare i propri consensi, sfruttando un’avversione diffusa nell’opinione pubblica. Da molti anni il rapporto tra gli italiani è l’Europa è diventato difficile e l’Ue è spesso indicata come la causa di molti problemi nazionali.
A testimoniarlo, un sondaggio dell’inizio del 2020, del Sole 24 Ore, che testimoniò un dato che era già percepibile ad “occhio nudo”: l’Unione Europea, agli occhi di un numero crescente di cittadini, non è più percepita in termini positivi. Diverse le ragioni. All’Ue si rimprovera, talvolta, una limitazione della sovranità nazionale. In particolare, quella monetaria, con l’introduzione dell’euro, accusato di aver portato un’inflazione che ha pesato gravemente sulle finanze dei cittadini.
Lo abbiamo ricordato già in passato, parlando dell’avvento dell’euro, quando sottolineammo la presenza quasi costante, negli appuntamenti elettorali successivi al 2002 di un piccolo movimento, dai consensi irrisori e dal nome “No Euro”. Mirava al ritorno alla lira e accusava la moneta unica europea di non aver prodotto nessun effetto benefico per l’economia e per le famiglie italiane. Fu fondato nel 2003 da Renzo Rabellino e, nel suo programma, si chiedeva di abolire il signoraggio del sistema bancario privato, l’uscita dell’Italia dalla zona euro ed il ritorno ad una moneta di proprietà pubblica nazionale. Il movimento sosteneva, infatti, che l’euro fosse una moneta completamente privata perché emessa dalla Banca Centrale Europea, su cui non vigono controlli da parte di organismi e istituzioni comunitarie.
Si rimprovera, da parte della galassia antieuropeista, l’essere sostanzialmente una Europa delle banche. Una critica che, quasi settanta anni fa, era fatta dal Partito Comunista, quando Pietro Ingrao, il 30 luglio del 1957, diceva alla Camera: «Questa operazione apre la via al rafforzamento del predominio dei grandi gruppi monopolistici internazionali ed interni. […] Si tratta di forze che sono state riconosciute come nemiche della democrazia italiana, e non solo da noi, che sono state individuate come la causa dell’arretratezza del nostro paese».
Un’opposizione derivata dal fatto che la Cee nasceva per rafforzare l’Europa occidentale e democratica, in contrapposizione al blocco socialista. Elemento che, per un partito legato all’Urss, dal punto di vista ideologico ed economico, era inaccettabile. La Cee, infatti, escludeva il modello socialista e, per i comunisti, univa l’Europa imponendo un sistema economico capitalista, togliendo l’autonomia agli stati nella ricerca di modelli alternativi. Come quello socialista.
Oggi, caduto il blocco comunista e attenuatasi l’identità della sinistra italiana, tra le principali forze politiche, solamente il Partito Democratico è, in gran parte, chiaramente europeista. Nel Movimento 5 Stelle forte è la componente euroscettica, mitigata con l’avvento di Giuseppe Conte. A destra, Forza Italia è tendenzialmente europeista, ma fa comunque parte di uno schieramento che ha sempre fatto tesoro della critica all’Unione Europea. Sulla disaffezione verso l’Europa hanno puntato Lega e Fratelli d’Italia (in parte, in maniera ambigua, anche il M5s). Europa e immigrazione sono, infatti, i due temi che la destra italiana ha sfruttato di più per raccogliere consensi facili. Sull’immigrazione, ad esempio, si rimprovera all’Unione Europea di lasciare il compito dell’accoglienza dei migranti ai paesi che si affacciano sul mediterraneo. Critica fatta talvolta a giusta ragione, talvolta in modo ipocrita, da parte di quei partiti e movimenti che, tuttavia, prima di diventare forze di governo hanno spesso stretto la mano a formazioni politiche europee che hanno sempre avversato un maggiore impegno europeo nel settore dell’accoglienza, come, ad esempio, il governo ungherese di Viktor Orban.
L’altro elemento di continuità dell’antieuropeismo è l’ostilità per la Germania. In passato, da sinistra si temeva che i trattati europei potessero portare un riarmo e un ritorno del militarismo, ipotesi da scongiurare, in un momento in cui era ancora forte il ricordo del nazismo. Oggi questa preoccupazione è venuta meno ma i partiti antieuropeisti si scagliano contro la Germania, descrivendo l’Ue come qualcosa una sorta “Quarto Reich”, strumento dell’imperialismo commerciale e finanziario tedesco sul continente.
L’arrivo al governo della destra italiana ha tuttavia portato a mitigare alcuni aspetti della retorica antieuropeista, maggiormente utili per la propaganda di forze di opposizione, ma più difficili da portare avanti quando si diventa forza di governo. Elemento, quest’ultimo, tipico dei partiti e dei movimenti populisti che nascono come forze di opposizione, con maggiore libertà di utilizzare, sui palchi, argomenti che, arrivati al governo, è meglio moderare.