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La Storia/Carnevale vecchio e pazzo, fra miti, leggende e maschere

L'impronta teatrale è attestata da mascheramento rituale, gesticolazione scomposta, sonorità assurde, intento derisorio ed irridente

Prof. Nicola Fiorino Tucci by Prof. Nicola Fiorino Tucci
20 Febbraio 2023
in Cronaca
La Storia/Carnevale vecchio e pazzo, fra miti, leggende e maschere
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Alla base c’è la maschera ed il suo significato simbolico, attinto direttamente dall’etimo: “mascha”, infatti, significa “anima nera e brutta”, cioè “strega, megera, figura maligna dai connotati stravolti”. Per estensione, il vocabolo indica un travestimento sul piano cultuale, buffonesco, criminale, magico, ma anche lavorativo e via dicendo. Non si esclude pure un’ influenza linguistica orientale: infatti, il verbo arabo “masharat” significa “beffare, prendere in giro con molto chiasso”. Il vocabolo “mascha” è, comunque, antico ma non trova riscontro nell’analogo latino ‘persona’ né in quello greco ‘prosopon’, entrambi confinati all’ ambito teatrale. Tuttavia, l’uso di una maschera per celebrare riti religiosi è attestato in tutte le civiltà del mondo e va incontro ad un’esigenza pratica, dettata dal ruolo e dalla condizione di chi la indossa, fedele o sacerdote. A Roma è piuttosto diffuso nei riti collettivi, soprattutto di alcune feste invernali come i “Saturnalia” ed i “Lupercalia”, legate alla Natura e caratterizzate da gran fracasso, urli, frastuono, battiti di mani e di attrezzi, ululati e risate. Effetti sonori, che, ancor oggi, nel loro ancestrale valore di esorcizzare possibili forze misteriose e maligne, caratterizzano il Carnevale, la festa più laica del calendario occidentale, risalente all’età altomedievale. Festa mobile, però, come la Pasqua dalla quale dipende per la sua collocazione temporale. Piuttosto diffusa è la convinzione che il Carnevale derivi dai “Saturnalia”, che a Roma avevano inizio con grandi banchetti e sacrifici durante i quali si scambiavano, con l’augurio “io, Saturnalia” (“evviva le feste di Saturno!”) piccoli doni simbolici, detti “strenne”. La festa era famosa perché ammetteva che fosse sovvertito l’ordine sociale: i ‘domini’, i padroni, diventavano servi e viceversa; il ‘princeps’ dei servi diventati padroni aveva pieni poteri ed indossava una maschera rossa, che richiamava una funzione propria di un dio ctonio, legato al mondo dei morti ed a quello della Natura. Durante la festa era venerato ed onorato dalla collettività per rabbonirlo ed indurlo a favorire i raccolti della prossima stagione primaverile. A nostro parere, però, il Carnevale ha più affinità con i “Lupercalia”, festa romana di carattere primordiale, che celebrava la fecondità e si svolgeva dal 13 al 15 febbraio sul colle Capitolino, presso il “Lupercal”, secondo la tradizione, la “tana della lupa” che aveva allattato Romolo e Remo. Due schiere di 12 rozzi sacerdoti, i ‘luperci’, correvano all’impazzata lungo i fianchi del colle, sferzando con i ‘februa’ (strisce di pelle animale) chiunque incontrassero, soprattutto donne che speravano in una gravidanza. I ‘luperci’ erano seminudi, indossavano solo una maschera grottesca ed una sorta di perizoma di pelle di lupo (da cui il loro nome: ‘coloro che tengono lontano il lupo’), animale totemico della religione romana, e pronunciavano frasi oscene nella loro corsa forsennata; le donne esibivano sfrontatamente il ventre scoprendolo; si venerava il caprone, simbolo di potente virilità; ogni anno, poi, erano iniziati due nuovi ‘luperci’ con un rito a base di sangue e di latte, che era chiaramente una cerimonia di morte e rinascita con conseguente purificazione. Il Carnevale condivide, pertanto, con i “Lupercalia” la collocazione nel mese di febbraio, la presenza di sfilate chiassose e mascherate, il rituale della morte e della rinascita, il concetto di fecondità e, soprattutto, quello di purificazione. Quest’ultima avveniva tramite i ‘februa’, strisce lunghe come le stelle filanti, ed i falò degli sterpi attraverso i quali gli animali erano costretti a passare, le cui ceneri erano sparse nei campi (mentre nel rito cristiano sono deposte sulla testa del fedele). Il nostro Carnevale, pertanto, si può ritenere un relitto del paganesimo, è il caso di dire, come dimostrerebbe il tentativo di papa Gelasio I, che vietò severamente nel V sec. d. C. i Lupercalia ma, non riuscendoci, contribuì a trasformarli in un periodo di penitenza e purificazione, due momenti che vanno sempre di pari passo nel catechismo cristiano. Furono così abbinati alla Pasqua, la festa più importante della Cristianità in cui la purificazione è anche mediata dal digiuno che si osserva in Quaresima, periodo che rinvia alla purificazione. Non riteniamo soddisfacente sul piano linguistico la spiegazione più comune del vocabolo (‘carnem levare’: non mangiare più carne), crediamo, invece, probabile che il Carnevale inviti a “mangiare la carne” (carnem vale: “abbia valore la carne”), considerato che è seguito, nel calendario liturgico cristiano, da un lungo periodo di digiuno, la Quaresima, appunto. Rappresentato da un fantoccio, che viene simbolicamente ucciso e bruciato, il Carnevale si avvale del mascheramento di tipo cultuale per morire e subito rinascere come Quaresima. Anch’essa una maschera, come sostengono numerosi testi medievali a noi pervenuti in cui è descritta con tratti fisiognomici chiaramente grotteschi e deformati: emaciata, scarmigliata, occhi spiritati e naso adunco, sdentata e rugosa. I giullari medievali celebravano il Carnevale esibendosi con una maschera bicefala quando interpretavano un “contrasto”, cioè un dialogo/monologo di un personaggio doppio (Carnevale e Quaresima, ad esempio), per suscitare una risata grassa e sonora con contorno di frizzi e lazzi, che richiamavano l’antica ‘fescennina iocatio’, elemento fondamentale per le primitive forme di teatro rustico italico. Pertanto, ci sembra che l’impronta teatrale, attestata da mascheramento rituale, gesticolazione scomposta, sonorità assurde, intento derisorio ed irridente, ancor viva nel nostro Carnevale, rinvii ad una dimensione magico – sacrale primordiale, che spesso si esprime in una maschera, caratterizzata da una smorfia. Più precisamente, da un ghigno, tratto caratteristico di un’entità maligna, che deve essere esorcizzata con una risata chiassosa e scomposta. Propria di un uomo impaurito dall’arcano ma capace di reagire in maniera non razionale. Un folle, insomma. Forse, proprio per ciò Seneca (Agostino, De civitate Dei, 6, 10) annotava, a proposito di certi riti religiosi della sua epoca, per lui inconcepibili, che “tolerabile est semel in anno insanire”. Ma, così dicendo, certo, non sapeva di anticipare lo spirito più autentico del Carnevale.

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