Gli anni ’70, come abbiamo visto più e più volte, furono un decennio di crisi politica, sociale e anche e soprattutto economica. Già alla fine del decennio precedente, la spinta propulsiva del miracolo economico iniziò ad affievolirsi, per poi arrestarsi con la fine degli accordi di Bretton Woods e l’interruzione della convertibilità del dollaro in oro, nel ’71, e con lo shock petrolifero del ’73 e la crisi energetica conseguente, che aveva fatto venir meno uno dei pilastri su cui si basava la crescita precedente: la disponibilità di fonti energetiche a basso costo, unita alla stabilità monetaria garantita da Bretton Woods, grazie alla quale era stata contenuta l’inflazione.
Una crisi che aveva decretato la definitiva morte del miracolo economico italiano, dando il via ad una fase di recessione, di incremento della spesa pubblica e maggiore indebitamento. Un’instabilità economica che, come abbiamo visto a lungo, nel corso di questa rubrica, si accompagnò anche a tensioni politiche e sociali. Iniziò il periodo della stagflazione, un’unione di stagnazione economica ed inflazione e la disoccupazione aumentò di conseguenza, fino a tornare a livelli simili a quelli degli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale.
Anche il mondo del lavoro ne risentì, perchè iniziarono a venir meno molte garanzie conquistate nella stagione precedente, fino agli anni immediatamente precedenti, aprendo nuovamente la strada a forme di lavoro precario che si ritenevano scomparse. Anche l’azione dei sindacati fu indebolita dalla situazione economica, che sottraeva loro forza contrattuale.
Una fase negativa dell’economia che cadde in un periodo di cambiamenti strutturali dell’economia. Cambiamenti che penalizzarono un Sud, che stava sperimentando, proprio in quegli anni, una tardiva e incompleta industrializzazione, vedendo nascere industrie in un’epoca in cui l’industria iniziò ad entrare in crisi, con l’avvento della società postindustriale, che portò ad una minore rilevanza del settore industriale a favore di un’economia basata sui servizi, sul settore terziario. Aumentarono, dunque, le divergenze tra Nord e Sud Italia, con una disoccupazione in aumento, soprattutto tra i giovani.
Quella crisi iniziata, dunque, ad inizio anni ’70, lungi dall’essere di breve durata, non solo si prolungò per tutto il decennio, ma si aggravò con il secondo shock petrolifero, quello del 1979, seguito, alla rivoluzione iraniana di quell’anno e alla guerra tra Iran e Iraq dell’anno successivo. Eventi che ebbero pesanti ripercussioni nel mercato petrolifero, innescando un nuovo aumento del costo del petrolio. Questo secondo shock petrolifero ebbe un impatto minore nelle società occidentali, rispetto a quello del ’73, ma che portò conseguenze notevoli, che si sarebbero manifestate nei successivi decenni. Ancora una volta l’Italia visse un periodo di forte inflazione, di crisi di sovrapproduzione. E mentre i salari continuavano a salire, i profitti calavano. Si chiedevano ancora sacrifici, che, in un paese già provato, come l’Italia, contribuirono all’ingigantirsi di una crisi politica che vide accrescersi la sfiducia verso sindacati e partiti politici. Soprattutto a sinistra, tra gli operai, forte fu l’allontanamento dai partiti e dalle strutture politiche e sociali di riferimento.
La fase negativa proseguì, quindi, per tutto il decennio e fece sentire le sue conseguenze anche nel nostro territorio, nella nostra zona industriale, che dagli anni ’60 aveva visto sorgere aziende che avevano accolto numerosi lavoratori provenienti da un settore agricolo sempre più in declino.
Fotografia della zona industriale barese di quegli anni è il libro “Tuta blu. Ire, ricordi e sogni di un operaio del Sud”, romanzo autobiografico scritto da Tommaso Di Ciaula, recentemente scomparso. L’autore, alternando ricordi di vita personale ad episodi della sua esperienza da operaio nella zona tra Bari, Modugno e Bitonto, raccontò la storia di quegli anni. Una storia vista con gli occhi di chi, strappato alla vita di campagna con la promessa di una vita migliore tra i macchinari, sperimentò gli inganni della retorica del progresso industriale, lo sfruttamento, le condizioni di lavoro precarie e la debolezza sempre maggiore dei sindacati, visti con sempre meno fiducia, mentre molte conquiste degli anni precedenti venivano meno. Quegli stessi sindacati, che avevano condotto lotte che, negli anni precedenti, avevano portato alla conquista di importanti traguardi, venivano ora visti con scetticismo, con disillusione: «Questi sindacalisti scrivono cose molto difficili: paritetiche, declaratorie, ecc. Spesse volte dimenticano che dovrebbero rivolgersi agli operai e credono di avere a che fare con La Malfa o con Cefis. Cosa ce ne frega dei grossi paroloni? Vogliamo argomenti chiari, limpidi, che si facciano capire. L’autunno caldo del 1969 ormai è lontano. Con quel contratto raggiungemmo grossi traguardi. Il padronato non se l’aspettava tanta grinta da parte degli operai e fu preso in contropiede. Adesso il padrone si è più organizzato. Direi che noi gli abbiamo dato il tempo ed il modo di organizzarsi. Non solo l’autunno doveva essere caldo, ma anche l’inverno, la primavera, l’estate e l’altro autunno sempre più bollente, da togliergli il respiro, da stroncarlo definitivamente, una volta per tutte. Noi operai questa volta non abbiamo le idee chiare, molti concorrono a confonderci le idee».
Tornitore meccanico presso la Pignone Sud, tra Modugno e Bitonto, Di Ciaula raccontò, con rabbia e disincanto, la disillusione verso lo strumento dello sciopero, ormai abusato e quasi divenuto inefficace. Raccontò la sfiducia crescente verso i sindacati e un Pci che, attraverso il compromesso storico con la Dc, mirava a diventare forza di governo alleggerendo i toni della sua lotta. Raccontò l’alienazione a cui venivano sottoposti operai schiavi dei ritmi di produzione pesanti ed opprimenti, dell’ossessione per il rendimento e dei contrasti con i capi, interessati più ad aumentare la produzione che a rendere l’ambiente di lavoro sano e sicuro e ad alleggerire ritmi pesantissimi. Raccontò degli appelli all’austerity ricorrenti sin dalla prima crisi energetica. Delle disparità sociali e dei sacrifici richiesti a chi, come gli operai, già ne faceva abbastanza: «La classe operaia sembra sbandata. I sindacati non fiatano. Intanto, guarda caso, ci piovono addosso i sacrifici. Una pioggia di sacrifici. Nessuno ci prospetta un’ombra di lotta, un’ombra di protesta, sembra che tutto vada bene, che tutto sia giusto, ma, dico io, sulla nostra groppa quanto altro peso potremo sopportare? Secondo me una linea si dovrebbe portare avanti, una linea ragionevole di protesta alla faccia del compromesso storico. Visto che ormai la rivoluzione, a quanto pare, non la vuol fare più nessuno, almeno incominciamo a mettere in chiaro quel poco che abbiamo conquistato finora, non lo svendiamo per le solite promesse, per la bella faccia dello sciacallo di turno. A che vale aver lottato tanto, per poi farsi fregare tutto quanto?».
Apprezzato da Sciascia, quel libro non piacque ai sindacati dell’epoca e, in particolare al segretario della Cgil Luciano Lama, a causa delle critiche mosse verso le associazioni di rappresentanza degli operai. Da quel romanzo di successo, nell’87, fu tratto anche il film “Tommaso blu”, girato in parte nella nostra città e diretto dal regista tedesco Florian Furtwängler, che vide come protagonista Alessandro Haber.
Quella crisi generale, unita al secondo shock petrolifero del ’79, pose le basi per quelle politiche economiche che saranno adottate a partire dagli anni ’80. Politiche neoliberiste adottate prima nel Regno Unito di Margaret Thatcher e negli Stati Uniti di Ronald Reagan, per poi diffondersi poi in tutti gli stati occidentali, e che saranno caratterizzate dal declino del ruolo statale nello sviluppo economico a vantaggio del ruolo del privato, dalla deregolamentazione dei movimenti di capitale, dalla lotta all’inflazione che diventa prioritaria rispetto alla lotta alla disoccupazione, nella speranza che con meno posti di lavoro disponibili le persone potessero accontentarsi di salari inferiori.
Il keynesismo del “Trentennio Glorioso” lasciò definitivamente il passo al neoliberismo degli anni ’80.