Questa storia inizia la mattina del 13 settembre di 77 anni fa. Siamo nel 1943, e la Seconda guerra mondiale è ancora lontana dalla bandiera a scacchi. L’Italia da cinque giorni non più alleata tedesca, ma cobelligerante con gli americani e gli inglesi, e da meno di due mesi non aveva più Mussolini come capo del Governo ma il generale Pietro Badoglio.
Hitler, ovviamente, non aveva per nulla accettato questo nostro cambio repentino di rotta, e convinto che dietro il rovesciamento del regime fascista ci fosse anche papa Pio XII, iniziò a pensare a un qualcosa di inaudito: rapirlo. Sì, rapire il pontefice.
La vicenda è stata svelata per la prima volta da uno dei protagonisti, e cioè da colui che avrebbe dovuto compiere tutto: Karl Wolff, braccio destro di Heinrich Himmler, capo delle SS. Lo ha fatto nel 1974, durante il processo di beatificazione di papa Pacelli. E i dettagli sono stati ripresi soltanto negli ultimi anni, prima da Dan Kurzman nel libro “A special mission”, mai tradotto in italiano, e poi da “Il Vaticano nella tormenta” di Cesare Catananti, uscito qualche mese fa e pieno zeppo di dettagli e notizie inedite anche grazie alla diplomazia pontificia.
Considerando il Vaticano “un nido di spie”, il 13 settembre 1943 il Fuhrer ordina a Wolff di preparare, in maniera urgente, un piano per rapire il vescovo di Roma. Il generale, però, già dubbioso sulla vittoria tedesca, capisce fin da subito che una cosa simile avrebbe creato più grattacapi che vantaggi, e un numero incredibile di disordini e rivolte, ma soprattutto realizza che la sua sorte sarebbe stata rovinata per sempre una volta realizzato tale progetto folle.
Che fare, allora? Disubbidire agli ordini? Sì e no, perché Wolff fa il doppio gioco, perché con una mano lo realizza ma con l’altra cerca di sabotarlo, aiutato anche un paio di diplomatici tedeschi.
Il libro di Catananti, però, svela che il Vaticano aveva già capito molto tempo prima che ci poteva essere questo rischio e già deciso come comportarsi.
E sottolinea tutto ciò che si era pensato per la protezione papale: una fuga in Spagna sfruttando l’appoggio del governo di Francisco Franco, una strenua resistenza armata in caso di invasione. Pacelli decise di restare dov’era, e che si sarebbe consegnato soltanto dietro costrizione fisica. E aveva in mente anche di fare un’altra cosa: dare fuoco alla breccia di Porta Pia se fosse stato necessario.
Non è servito, però, perché le cose si sono sviluppate in modo decisamente diverso. Karl Wolff portò avanti la sua azione e a far desistere Hitler con un paio di argomenti. E cioè che il rapimento del pontefice avrebbe significato due cose. Uno: aumento del potere e prestigio della resistenza comunista anche tra i cattolici tedeschi. Due: sarebbe stato più agevole, per americani e sovietici, scoprire i campi di concentramento dove i nazisti stavano epurando gli ebrei.
Era necessario – la conclusione di Wolff – che il papa, invece, rimanesse neutrale o comunque non ostile. Ed è stato proprio così, perché per decenni si è parlato del silenzio di papa Pio XII dinnanzi ai crimini tedeschi, ma è stata l’arma con cui ha salvato migliaia di ebrei nei palazzi vaticani.
La moral suasion ha funzionato, perché a dicembre dello stesso anno il Fuhrer si convince che il suo folle progetto vada per lo meno rimandato, ma in realtà non si farà mai.
Qualche mese dopo, a giugno 1944, quando per la Capitale l’incubo nazista era appena finito, Karl Wolff sarà ricevuto in gran segreto dal pontefice, dal quale accettò la benedizione.