11:51 PM- 21/03/2020
l’odore del caffè che riempiva le stanze di una casa che ormai non era quasi mai del tutto ordinata: era così che mi svegliavo ogni mattina, non si sentiva più nemmeno il cinguettio che, tempo prima, avrebbe preceduto il rumore assordante dei clacson, indice dell’inizio di una giornata tutta nuova da assaporare.
In quel momento, da assaporare rimaneva quel caffè e, forse, qualche angolo inesplorato di casa.
Il marzo degli anni 20 del ventunesimo secolo aveva visto proprio questo: un letto sfatto, quattro tazzine di porcellana nel lavello, i libri, quelli di scuola però, aperti sulla scrivania (ad un tratto era diventato bello anche studiare) e la televisione, che ormai un canale valeva l’altro perché non facevano altro che bombardarci di informazioni.
Poi c’era la voglia di fare.
Una voglia di fare tutta nuova, più insistente, più curiosa di quanto non lo fosse mai stata.
Si manifestava attraverso gli occhi desiderosi che, davanti allo specchio, sembrava luccicassero quando fantasticavo su cose e luoghi che, in quel momento, mi sembravano irraggiungibili.
Il marzo degli anni venti del ventunesimo secolo, in casa mia, ne aveva viste di tutti i colori: torte bruciate, fogli strappati, capelli spettinati e gli esercizi per un fisico scolpito, che la vita non è vita senza quelli.
E un po’ pensavo alle passeggiate tra le strade di una città caotica, poi pensavo al mare e ai gelati, oppure mi capitava di pensare ai temporali estivi.
Altre volte mi capitava di pensare all’amore che mi aspettava a casa sua (sarò sincera, questo era un pensiero fisso), poi pensavo agli esami di stato (anche loro mi attendevano impazienti), oppure pensavo al sole debole che splendeva fuori casa, nonostante non ci fosse nessuno.
Il sole del marzo degli anni 20 del ventunesimo secolo, che non era mai stato più pazzo di così, continuava ad esserci e a splendere.
A lui non importava del caos, del mare o dei gelati, dei temporali.
A lui, no, non importava neanche dell’amore, della scuola, forse non gli importava neanche di sé stesso: continuava a consumarsi quando avrebbe potuto semplicemente dormire anche lui, come noi quaggiù.
Ma a me, in realtà, il sole lasciava immaginare una vita diversa da questa, non che mi dispiacesse stare in casa.
Mi lasciavo ispirare con così tanta facilità che quasi la raggiungevo un’altra vita, una vita che non mi portasse a pensare alla primavera e poi all’estate, agli amici di una vita e alle code fuori ai supermercati (nel frattempo mi toccava anche pensare a D’Annunzio e alle derivate).
Però la vita vera era lì fuori e non mi aspettava, non ci aspettava.
Ma, in realtà, sentivo di essere vicina a toccarla, intimidita, quando accarezzavo il viso della mia mamma dicendole che sarebbe andato tutto bene.
La vita vera la sentivo scorrere sotto la mia pelle, quando lasciavo che le mancanze mi lacerassero un po’ il cuore.
La vita, quella vera, la sentivo gridare, quando mi ritrovavo a cantare sotto la doccia, così come avevo sempre fatto, un po’ per fingere, un po’ per lasciarmi vivere.
La vita vera, che era fuori e correva in riva al mare e poi dondolava su un’altalena, la vita vera la sentivo tremare dentro di me e poi mi accorgevo di non esser l’unica: c’erano gli innamorati che ballavano sui balconi, quelli che stringevano la bandiera, quelli che cantavano e il Paese intero diventava un concerto.
Il marzo degli anni venti del ventunesimo secolo non ce l’aveva fatta a buttarci giù: noi non abbiamo avuto bisogno che la vita fuori ci aspettasse, noi l’abbiamo portata dentro di noi e poi l’abbiamo lasciata libera di muoversi, seppur dentro casa.
E fuori c’era la primavera e qualche minuto in più di luce a cui si iniziava a far caso, fuori c’erano le onde del mare che si arrotolavano ancor più prepotentemente e qualche sorriso dai paesi più lontani.
Il marzo degli anni venti del ventunesimo secolo aveva visto proprio questo: noi che vivevamo una vita che non sembrava esser vita, noi che danzavamo sulle note di canzoni che forse non conoscevamo, e noi che guardavamo il sole e po’ lo abbiamo ringraziato per non essersi addormentato.
Noi che ripetevamo, forse un po’ impauriti, forse un po’ speranzosi, che si, sarebbe andato tutto bene.
E che il caffè poi avrebbe avuto tutto un altro sapore.
Marica Cantatore