Capita spesso di girare per le nostre campagne, nel nostro agro, che si estende fino in territorio murgiano e osservare oltre alle storiche e secolari masserie, edifici abbandonati, non troppo antichi, ma comunque vuoti da un po’ di decenni. Frequentemente mai terminati, e quasi tutti abbandonati, abbondano nel paesaggio murgiano: sono le case coloniche della Riforma Agraria del 1950.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, infatti, ci fu in Puglia e in tutto il Sud Italia una forte mobilitazione delle masse agricole, che obbligò il governo guidato da Alcide De Gasperi a varare la Riforma Agraria”, la legge stralcio 841/1950, ideata dall’allora ministro dell’Agricoltura Antonio Segni. Una mobilitazione con scioperi e proteste, al grido di “La terra a chi la lavora”, sostenuta dai braccianti, dai sindacati e dai partiti politici di sinistra, specialmente socialisti e comunisti. L’obiettivo era la liberazione dallo sfruttamento dei grandi latifondisti, accusati di essere interessati solamente alla rendita e non alle condizioni di vita della manodopera. Diffuse, infatti, furono le tensioni sociali nelle campagne meridionali. Le difficili condizioni di vita di intere fasce della popolazione causavano crescenti forme di insubordinazione sociale. I braccianti agricoli, gli affittuari chiedevano che fossero loro assegnate quelle terre che gli agrari non coltivavano o coltivavano male.
Lungo e difficoltoso fu il dibattito che precedette il varo della riforma. Già nelle elezioni del 1946, a Bari, nel Teatro Piccinni, i socialisti la invocavano. Fu argomento di campagna elettorale anche nel ’48. I comunisti erano, inizialmente, persino contrari ad un rimborso verso i proprietari terrieri. A contrastare l’impostazione di sinistra furono i liberali e, in particolare Confagricoltura, che accusava il non tener conto degli sforzi fatti dagli agricoltori per il progresso sociale ed economico del settore agricolo. I liberali, tacciati dalla sinistra di essere conservatori, si dissero contro il limite massimo all’estensione degli appezzamenti.
La legge Stralcio fu l’estensione, nelle altre regioni italiane, della legge Sila, varata nel maggio dello stesso anno e riguardante solo il territorio della Sila, in Calabria. Nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto, specie nel Sud Italia, espropriare le terre ai grandi latifondisti per dividerle e redistribuirle tra i braccianti agricoli. 300 ettari fu l’estensione massima. I contadini, quindi, sarebbero diventati piccoli imprenditori, non più sottomessi ai latifondisti.
Gli appezzamenti di terra sarebbero quindi stati oggetto di interventi, affinché fossero dotati di abitazioni dotate dei servizi necessari, dai pozzi per l’acqua alle stalle, dalle cisterne ai depositi per gli attrezzi agricoli. Queste erano, appunto, le case coloniche, che sarebbero dovute essere collegate con servizi pubblici essenziali (trasporti, assistenza scolastica, sanitaria, luoghi di culto). Interventi finanziati, in parte, con i fondi del Piano Marshall, nonostante negli Stati Uniti qualche critica alla riforma ci fu.
Da un lato, quella riforma ebbe il risultato di trasformare braccianti sfruttati e sottopagati in piccoli imprenditori e di bonificare alcune zone. Ma il limite all’estensione, dall’altro lato, ridusse la dimensione delle aziende agricole che nacquero, limitando le possibilità di trasformarle in veicoli imprenditoriali avanzati. E fu anche per ovviare a questo limite che, in alcuni casi, sorsero forme di cooperazione tra le tante piccole aziende. Nacquero, infatti, cooperative agricole che, programmando le produzioni e centralizzando la vendita dei prodotti, diedero al settore agricolo quel carattere imprenditoriale venuto meno con la divisione delle terre. Si ebbe, nei casi in cui la cooperazione andò in porto, spesso ci fu una migliore resa delle colture che da estensive diventarono intensive. Ci fu, quindi, un più efficiente sfruttamento di quei fondi e il lavoro agricolo che era stato fino ad allora poco remunerativo anche se molto pesante, cominciò a dare i suoi frutti. Ma non sempre le cooperazioni andavano in porto facilmente, tanto che, ancora oggi, nelle cronache sull’andamento del settore agricolo, spesso si rimprovera agli agricoltori locali di guardare solamente al proprio orticello, senza volersi unire in cooperative.
Ma solo una bassa percentuale di contadini riuscì ad ottenere tutto quei servizi che furono annunciati dalla legge Stralcio. Dato che rende quella tentata dalla riforma del ’50 una rivoluzione tentata e fallita, perché non riuscì a raggiungere i suoi obiettivi (gli storici sono comunque divisi sul giudizio). Segni, sostituito qualche mese dopo, da Fanfani, non ebbe modo di seguire pienamente l’attuazione della sua riforma. Inoltre, nella società italiana dell’epoca, l’agricoltura era sì ancora centrale, ma era destinata a cedere il posto, nel giro di pochi anni, ad un’economia guidata dal settore industriale, e ad essere relegata ad un ruolo più marginale. Quella civiltà contadina che aveva caratterizzato la vita nelle campagne per secoli, nel giro di pochissimo tempo, sarebbe stata spazzata via anche dall’allargamento delle città, per accogliere tutti coloro che dalla campagna si trasferirono in città in cerca di lavoro. E così, come cantò Celentano, in molte zone «là dove c’era l’erba ora c’è una città».