Sarà la sua partita. Il derby del suo cuore, quello di oggi fra Bari e Bitonto. Con sguardo accigliato e pensoso, osserverà i ventidue uomini scarpinare su quel prato troppo oltraggiato in questi ultimi mesi da loschi figuri indegni. Forse, aleggerà in cima alla scalinata che gli hanno dedicato qualche tempo fa. Michele Alboreto è stato un personaggio affascinante come pochi: pedatore, certo, ma pure intellettuale e sopraffina penna. Soprattutto, nei primi decenni del Novecento ha vestito la maglia dell’Ideale Bari – che, poi, fondendosi col Liberty, partorì la Bari – , in prima divisione, e nella stagione 1931-’32 quella del Bitonto, in seconda: esse avevano in comune i colori, neroverdi. Il signor Ventafridda dalla lontana Buenos Aires, innamorato perdutamente della sua terra natia e spinto dal cognato, tale Luisito Monti, difensore insormontabile della Juventus, sovvenzionava a colpi di 1000 lire la società neroverde, che si assicurava così le prestazioni di questo terzino tutto fiera corsa ed erculea possa. Con una rettitudine interiore che nasceva dalla sua grande fede nella religione cristiana, non è un caso che lo chiamassero “ze mòneche”. Poi, la vita lo condusse in Belgio, dove fu accompagnatore della Nazionale, divenendo un saldo punto di riferimento per quella federazione calcistica. Scrisse opere tecniche sul mondo del pallone, ma pure d’argomento letterario e spirituale. Si spense all’alba dei Duemila a quasi un secolo d’età. Chissà se i biancorossi – ahiloro ancora fantomatici – e i neroverdi di Massimo Pizzulli saranno degni del calciatore-scrittore Michele Alboreto e delle sue belle parole: «Non si nasce calciatore così come non si nasce avvocato o ingegnere. Si nasce soltanto con un istinto che, nel calcio, occorre sviluppare fisicamente, atleticamente e tatticamente. […] La specializzazione del giocatore deve essere il risultato della non specializzazione. Un difensore, quindi, deve saper essere anche un attaccante e l’attaccante anche un difensore».