Doveva essere un viaggio breve. Le condizioni meteo erano considerate buone. Appena due ore di aereo, per un viaggio di lavoro che, la mattina di giovedì 11 maggio 1989, avrebbero riportato l’avvocato Donato Pepe nella sua Bari. Ma lì, alla sua meta finale, quel Piper PA 38 “I Vide”, aereo monomotore da turismo di proprietà dell’Aero Club barese, non arrivò mai, inghiottito dall’impervio paesaggio dell’Aspromonte.
Atteso in Puglia alle 8.30, era decollato alle 6.15 dall’aeroporto di Reggio Calabria, ma dopo qualche minuto non diede più segnale. Dopo l’ultimo contatto radio alle 6.21, si interruppe ogni comunicazione. Silenzio totale. Un vuoto drammatico che durò 24 ore. Solo la mattina successiva, dopo lunghe ricerche nella Calabria meridionale, un elicottero individuò il relitto in un vallone impervio tra Santo Stefano di Aspromonte e Cardeto, a circa 20 chilometri da Reggio Calabria. Una zona difficilmente accessibile, che comportò notevoli difficoltà per i soccorritori.
L’aereo trascinò fatalmente con sé, oltre all’avvocato Pepe, anche il giovane pilota Emanuele Lisi, ventottenne di Bitonto, pilota esperto e socio dell’Aero Club, con un brevetto di terzo grado e oltre 500 ore di volo. Conosceva molto bene la rotta calabrese, avendola percorsa in altre occasioni. Fu ritrovato a qualche metro di distanza dal relitto del suo aereo, sbalzato dall’impatto, mentre Pepe era ancora legato al sedile dalla cintura di sicurezza. La carlinga non aveva preso fuoco nello schianto contro il costone di roccia.
Escluse cause legate a condizioni meteo negative, incerta fu la causa dello schianto. Un’improvvisa foschia? Un errore umano? Un guasto tecnico? Tutto possibile, nonostante Lisi fosse un pilota esperto e l’aereo, costruito nei primi anni ‘80, era stato da poco revisionato. A cercare di far luce su quella tragedia, fu una commissione della Direzione Generale dell’Aviazione Civile, insieme alla Procura della Repubblica di Reggio Calabria.
Ma chi era il barese Donato Pepe? Avvocato di spicco nel panorama barese, era noto per il suo impegno professionale e sociale. Il viaggio a Reggio Calabria era stato dettato da urgenti impegni lavorativi. Era presidente delle società Metanodotti Meridionali e Metanodotti Molisani e dall’inizio degli anni ‘80 era anche console dello Zaire, l’odierna Repubblica Democratica del Congo, che dal 1971 al 1997, durante il regime dittatoriale di Mobutu Sese Seko, cambiò nome con lo scopo di eliminare ogni traccia della precedente dominazione coloniale belga.
Il 1982 fu l’anno della sua nomina a console onorario dello Zaire, da parte dell’ambasciatore italiano. Tra le motivazioni alla base della nomina, il suo lodevole impegno nell’avviare contatti commerciali tra aziende baresi e zairesi.
«Una giovane nazione che ha immense risorse, ma che ha bisogno della tecnologia italiana. Potrebbe essere un buon mercato per le industrie locali» disse nel corso di un evento, di cui riporta la Gazzetta del Mezzogiorno del 31 gennaio 1982, volto all’accoglienza di diversi studenti provenienti dal paese africano. Il nome dell’avvocato Pepe ritornò sulle pagine del quotidiano pugliese il 22 dicembre 1987, quando comunicò i risultati di una ricerca svolta in Zaire volta a trovare cure per un altro flagello che afflisse il paese: l’Aids.
Una parte di Africa molto difficile, quella di cui Pepe era console, teatro di decenni di guerre, massacri, sfruttamenti economici, scontri tra fazioni militari e politiche rivali, traffici di armi.
Per comprendere meglio la situazione in cui versava lo Zaire, facciamo un breve salto indietro.
Prima di diventare indipendente, nel 1960, era stato per quasi un secolo sotto un regime coloniale fortemente oppressivo verso la popolazione locale. Un regime che, specialmente tra il 1885 e il 1908, gli anni di re Leopoldo II, si rese responsabile di una crudele campagna persecutoria e di crimini orribili. Lì, in quel remoto Stato dell’Africa centrale, la monarchia del Belgio aveva forti interessi legati al commercio di avorio e caucciù, che furono la causa di un massiccio sfruttamento economico. E fu proprio per proteggere quegli interessi economici che il Belgio avviò un regime oppressivo volto a contrastare le istanze antimperialiste. Un regime che si rese colpevole di un genocidio dimenticato ai danni della popolazione locale. Si calcola che durante la dominazione belga, considerata una delle più spietate dell’epoca coloniale, furono assassinate circa 10 milioni di persone, con modalità spesso crudeli.
Crimini di cui solo nel 2020 lo stato europeo, tramite re Filippo, chiese scusa. Ancora oggi, in Congo, sono forti le richieste di eliminare monumenti ed omaggi al passato coloniale.
L’indipendenza arrivò nel 1960 e tra i principali protagonisti della lotta per l’indipendenza vi fu Patrice Émery Lumumba, primo ministro del neonato stato da giugno a settembre 1960. Temendo una sanguinosa guerra d’indipendenza, come quelle che altri stati fronteggiavano (ad esempio la Francia con l’Algeria), il Belgio concesse l’indipendenza, mantenendo proprie truppe per proteggere i connazionali in fuga. Ma ottenuta l’indipendenza, con un esercito ormai allo sbando e un’alta ingovernabilità, il paese doveva fronteggiare un altro conflitto, la Guerra Fredda. Lumumba era orientato ad allinearsi con l’Unione Sovietica. Mossa sgradita non solo al suo antico dominatore coloniale, ma anche agli Stati Uniti d’America, che in funzione antisovietica sostennero il colpo di stato guidato da Mobutu Sese Seko, ufficiale militare che in passato aveva servito la Force Publique, l’esercito coloniale belga.
Mobutu impose un regime monopartitico, che concentrò tutto il potere nelle sue mani e diede vita ad un forte culto della personalità. Durante il suo governo gravi e ripetute furono le violazioni dei diritti umani, rendendo sempre più difficile, per le potenze occidentali, continuare a sostenerlo, pressate dall’opinione pubblica, considerando anche che la caduta sovietica fece venir meno la funzione anticomunista, principale ragione dell’appoggio. Così nel 1996 forze ribelli ruandesi ed ugandesi al comando di Laurent-Désiré Kabila sferrarono l’attacco finale, costringendo Mobutu alla fuga in Marocco, dove morì pochissimi mesi dopo a causa di un cancro alla prostata.
Dopo la caduta del regime di Mobutu, il paese, alle prese con un grave collasso economico, tornò a chiamarsi Repubblica Democratica del Congo. Quell’aggettivo “democratica” la distingue dalla confinante Repubblica del Congo, l’ex Congo francese, poi diventato, dal 1969 al 1992, Repubblica Popolare del Congo, regime politico monopartitico, governato dal Partito Congolese del Lavoro, d’ispirazione marxista-leninista.