Con la crisi innescata dalla Lega nel 2019 e con le dimissioni di Giuseppe Conte nel febbraio 2021, si conclude definitivamente l’esperienza governativa dell’”avvocato del popolo” di Volturara Appula.
A prendere il suo posto nell’esecutivo, fu Mario Draghi, economista romano, già presidente della Banca Centrale Europea, governatore della Banca d’Italia. La sua fu la seconda esperienza di governo tecnico in meno di dieci anni, dopo quella di Mario Monti.
A sostenere l’economista romano furono Partito Democratico, Liberi e Uguali e altri piccoli partiti liberali e centristi. Fu un governo tecnico che si insediava in un momento particolare della storia globale. Si era, infatti, nel pieno della pandemia da covid-19, che aveva già costretto il precedente governo ad attuare decisioni ampiamente impopolari e che aveva dato linfa ad un diffuso populismo insito nei vari negazionismi, complottismi.
Ma su questo torneremo più avanti.
Soffermiamoci, qui, su un’altra forma di antipolitica. Un’antipolitica sviluppatasi maggiormente negli ultimi 30 anni, con la crisi sempre maggiore della politica e dei suoi principali protagonisti, i partiti politici. Parliamo di quella forma di antipolitica che vede, come unica alternativa all’inefficienza, all’inutilità dei partiti e delle assemblee parlamentari dove questi ultimi discutono, il governo tecnico, che diventa così argine ai populismi che la politica non è più in grado di affrontare. Una sorta di profezia che si autoavvera e che vede crescere la necessità del tecnico all’avanzare della crisi dei partiti che, a loro volta, perdono ulteriore forza delegando alla ricetta tecnica il ruolo di unico argine contro il populismo e la destra.
Come abbiamo sottolineato più volte, nel corso di questa rubrica, non è la prima volta che il governo tecnico viene spacciato come alternativa benefica al corrotto o inefficiente sistema partitico. Già negli anni ’50, nel pensiero liberista di Achille Lauro era presente l’idea che solo un ministero di tecnici e persone competenti fosse in grado di soddisfare le immediate esigenze del Paese. E anche in Lauro c’erano già pesanti critiche allo statalismo, al professionismo politico degli incompetenti e al dispotismo dei segretari di partito. Dunque, l’idea che solo un governo tecnico possa risollevare le sorti dell’Italia non è affatto nuova.
Anche in anni recentissimi abbiamo già visto questo schema prima dell’avvento del governo di Mario Draghi. Stiamo parlando di un altro Mario che è stato al vertice del potere esecutivo: Monti. In quel caso, il fallimento del governo guidato dal partito personale berlusconiano portò alla sua sostituzione con un governo tecnico guidato da personaggi esterni ai partiti.
Nel caso di Draghi, il nuovo governo tecnico nasce dalla crisi dei due governi guidati da Conte, portavoce di un partito che era stato il paladino del populismo antipolitico e antipartitico, ovvero il Movimento 5 Stelle. Era, ovviamente, un momento delicato della storia recentissima e c’era bisogno di un governo d’emergenza che prendesse decisioni rapide. Nulla di sbagliato in questo, sia chiaro. Qui però si vuol porre l’accento, tuttavia, sulla retorica del “governo dei migliori” che fu alla base della nascita del governo Draghi. Una retorica che vedeva l’esecutivo guidato dall’economista come l’unico argine contro i populisti vari, gli antieuropeisti, i sovranisti e contro l’ultrapopulismo della destra, ma anche contro le lungaggini del dibattito politico, che ritardano il momento della decisione in un momento in cui la crisi innestata dalla pandemia richiedeva interventi celeri. E qui, ritorna la denuncia contro la “lentocrazia”, espressione usata nel ’69 dal politologo Giorgio Galli, in riferimento al sistema bicamerale imperfetto italiano, accusato di non rispondere rapidamente alle sfide in atto nella società.
Ma, sotto certi punti di vista, la retorica del “governo dei migliori”, del tecnico che sopperisce all’inadeguatezza del politico non è molto dissimile da quella usata dal classico populismo antipartitocratico. Anzi, sono due volti di un’identica medaglia. Entrambi nascono dalla delegittimazione della politica e del partito politico, con la sua organizzazione e il suo importante ruolo di mediatore tra cittadinanza e istituzioni.
C’è chi definisce quello in questione “tecnopopulismo”, termine coniato nel 1995 per descrivere un populismo alimentato dalla tecnologia, dalla politica post-ideologica, e dal mito del governo tecnocratico. Una forma speculare di populismo basata sulla convinzione della superiorità della tecnica alla politica e sul sacrificio, in nome del decisionismo, di quella che è l’anima stessa della politica democratica: l’intermediazione e la mediazione, la capacità di trovare punti di accordo da posizioni di partenza differenti.
Così come i populisti sostengono di essere rappresentanti dell’unica autentica volontà popolare, i tecnocrati si presentano come conoscenti dell’unica risposta razionale alle sfide politiche, che solitamente è quella neoliberista. E sintomo della crisi che, da decenni, attraversa la sinistra è l’accettare acriticamente i governi tecnici e i loro diktat, perché sono l’alternativa al populismo, alla destra, ai sovranisti.
Così come per i populisti, non essere d’accordo con loro significa non essere dalla parte del popolo e, talvolta, essere traditori del popolo, per i tecnocrati significa non essere in grado di comprendere il da farsi, per mancanza di competenze, meriti, curriculum vitae e via dicendo. Non essere, appunto, “i migliori”.
Quella alla base di tutto ciò è retorica che ha radici profonde, già discusse nel corso della rubrica. Il risentimento antipolitico è, infatti, diffuso in tutto il vecchio continente ed è figlio della crisi dello Stato sociale, oltre che di un’operazione ideologica di screditamento degli istituti di mediazione e dell’idea stessa di welfare state. Operazione che trova espressione nella tesi del sovraccarico (overload thesis), nata in ambienti politici ed economici della destra liberista ed enunciata nel rapporto della Commissione Trilaterale del ’73, di cui Mario Monti fu chairman europeo. Questa teoria imputava allo Stato sociale di paralizzare le possibilità espansive dell’economia. E, quindi, solo sottraendo gran parte del potere decisionale alla politica, per cederlo alla competenza tecnica di mercato e banche centrali sarebbe stato possibile uscire da questa paralisi. Ad essa si affianca la public choice theory, teoria nata negli anni ’60 negli Stati Uniti e poi diffusa in tutto l’Occidente, che affermava che il comportamento degli attori politici non può che essere orientato ad ottenere benefici personali o vantaggi per conto della propria parte.
Ma la ricetta tecnica, spesso incapace di cogliere malumori insiti in fasce svantaggiate della società, prima o poi, entra essa stessa in crisi, aprendo le porte proprio a quel populismo che avrebbe dovuto arginare.