Ottobre 1956. Nei paesi del blocco comunista iniziano a soffiare venti di protesta e, in molti paesi, cominciano a venir fuori volontà di percorrere vie nazionali al socialismo, maggiormente indipendenti dal Partito Comunista di Mosca. Le fratture con l’Unione Sovietica erano iniziate già nel ’53, dopo la morte di Stalin, il successivo periodo di vuoto di potere e l’avvio della destalinizzazione, il processo che avviò una rimozione di tutto ciò che aveva creato il culto della personalità di Stalin. Processo che determinò diverse defenestrazioni nei governi comunisti dell’Est Europeo. Le prime rivolte si ebbero già nel ’53 a Berlino Est, dove le proteste dei lavoratori furono violentemente represse con l’aiuto sovietico. Altre manifestazioni si tennero, nel ’56 in Polonia e, anche qui, furono represse dalla polizia. Nell’ottobre ’56, sempre in Polonia, le organizzazioni studentesche iniziarono a manifestare per una maggiore autonomia dal controllo dell’Urss e per la riabilitazione di Gomulka, allontanato anni prima dal Partito del Lavoratori e arrestato, perché accusato di essere reazionario.
Le proteste polacche ispirarono anche gli studenti ungheresi di Budapest, che trovarono un loro portavoce in Imre Nagy. Le manifestazioni crebbero rapidamente, coinvolgendo ampi strati della popolazione e dell’esercito. Si formarono consigli di operai in sciopero, fu abbattuta una statua di Stalin nella capitale ungherese e, il 25 ottobre, si insediò un nuovo governo formato proprio da Nagy. A porre fine alle proteste e alle speranze di maggiore autonomia furono i carri armati sovietici, nei primi giorni di novembre, che repressero nel sangue ogni insurrezione. Più di 2600 furono i morti ungheresi, mentre tra le fila sovietiche i caduti furono poco più di 700.
La dura repressione sovietica ebbe un forte impatto nell’opinione pubblica internazionale e, anche tra gli stessi partiti comunisti europei, si espressero diverse posizioni di protesta verso quella violenta risposta militare. Anche in Italia, dove numerosi intellettuali, militanti e simpatizzanti comunisti firmarono il Manifesto dei 101. Manifesto che, rifiutato dal giornale di partito L’Unità, venne reso pubblico dall’Ansa. Tra i comunisti ci fu chi ritirò l’adesione al partito. Il partito si spaccò tra chi condannava la reazione sovietica e appoggiava i manifestanti e chi giustificava l’intervento. Tra i firmatari del manifesto, vi furono diversi nomi di punta tra gli intellettuali di sinistra, tra cui di Luciano Cafagna, Alberto Caracciolo, Piero Melograni, Natalino Sapegno, Antonio Maccanico, Elio Petri, Mario Tronti, Paolo Spriano. L’anno successivo, ad abbandonare la tessera comunista, fu lo scrittore Italo Calvino. Ma anche molti militanti di base uscirono dal partito in segno di protesta. Circa 200mila iscritti.
In Puglia, una delle più autorevoli voci di sostegno ai manifestanti fu quella del sindacalista cerignolano Giuseppe Di Vittorio (Cgil).
Gli intellettuali criticarono anche il Pci sia per non aver formulato una condanna allo stalinismo, sia per aver appoggiato l’invasione sovietica in Ungheria.
Una situazione che desta preoccupazione nel Pci. Tanto che molti, tra coloro che dissentivano dalla linea filorussa del Pci, chiedevano la sostituzione di Togliatti con lo stesso Di Vittorio
Tra i partiti politici, diverse furono le reazioni ai fatti d’Ungheria. Se i vertici del Pci si mostrarono più filosovietici, gli altri partiti presero decisamente le parti dei manifestanti esprimendo forte dissenso verso il comportamento di Mosca. I socialisti, nonostante il forte legame che, all’epoca, avevano ancora con il Pci, condannarono apertamente la repressione sovietica e l’Avanti, tramite il giornalista Luigi Fossati, casualmente sul posto, documentò gli avvenimenti e ne parlò, senza censura, sulle pagine del giornale socialista.
Ovviamente non poteva che essere dura, nella critica antisovietica la Democrazia Cristiana, insieme a quella di tutto il mondo cattolico.
Se ne parlò in tutte le sezioni dei vari partiti d’Italia, anche quelle più territoriali. Anche nella sezione provinciale di Bari che, in data 28 ottobre, sulle pagine della Gazzetta del Mezzogiorno (giornale fortemente anticomunista che sul tema aveva già di suo dato vasta attenzione), pubblicò un duro comunicato: «La Giunta Provinciale esecutiva del Partito della Democrazia Cristiana di Terra di Bari, riunita in seduta ordinaria esprime ammirazione e solidarietà all’eroico popolo magiaro, insorto per difendere, con la vita, l’aspirazione alla libertà e ad una vera democrazia; attonita e commossa si inchina di fronte alle migliaia di vittime falcidiate dal piombo della brutale repressione sovietica, confermativo, ancora una volta della crudeltà di una concezione materialista che, dopo aver soffocato ogni anelito di libertà, si rivela assolutamente incapace ad assicurare il benessere economico dei popoli; denunzia l’inammissibile ingerenza della Russia sovietica negli affari di altre nazioni, con l’inumano impiego di carri armati e di aerei, contro lavoratori e studenti reclamanti il diritto a vivere in libertà; stigmatizza l’atteggiamento del Partito Comunista Italiano che ha apertamente e supinamente, solidarizzato con i responsabili dei brutali massacri, contro tutta l’opinione pubblica italiana, compresa quella dei socialisti, accortisi, finalmente, degli orrori della dittatura moscovita; Invita le sezioni della Democrazia Cristiana di terra di Bari ad indire assemblee di soci per manifestare il loro solidarismo al mondo degli oppressi e per protestare contro i metodi deprecati del colonialismo rosso».
Manifestazioni di dissenso verso l’intervento sovietico, dunque, su invito della Dc provinciale, almeno da parte cattolica, si ebbero in diversi comuni del barese. Del resto, anche i democristiani bitontini avevano, in passato, già avuto modo di condannare gli interventi militari comunisti, sin dal ’50, l’anno dello scoppio della Guerra di Corea, provocata dall’ invasione nordcoreane nella parte meridionale della penisola. Ne accennammo già nella puntata dedicata a “L’ora lieta dell’elettore”. In una delle registrazioni usate durante le prime campagne elettorali di età repubblicana, a Bitonto, i giovani militanti democristiani cantavano: «Di pace voi parlate, ma in Corea la guerra voi fate».