Concludiamo il nostro viaggio attraverso le organizzazioni collaterali ai partiti politici parlando della Chiesa Cattolica. Ovviamente non perché sia un’organizzazione collaterale. Tutt’altro. Ma per il suo rapporto con i partiti politici e, in particolare, con la Democrazia Cristiana, il partito che si proponeva come rappresentante, punto di riferimento del mondo cattolico in Italia e che, proprio alla Chiesa e alle sue organizzazioni, come Azione Cattolica, Fuci, Acli, affidava spesso quelle funzioni che, a sinistra, erano affidate alle organizzazioni collaterali e che saranno alla base della definizione del Pci come un “partito-chiesa” con i suoi riti, i suoi martiri, con le sue strategie, la sua struttura.
Come abbiamo avuto già modo di scrivere, la Democrazia Cristiana fu il frutto di un lungo dibattito che aveva interessato la Chiesa e il mondo cattolico italiano e che affondava le radici nel Risorgimento, nella presa di Roma del settembre 1870, passando poi per il “Non expedit” di papa Pio IX e per la sua abrogazione da parte di Benedetto XV, fino ad arrivare all’”appello agli uomini liberi e forti” di don Luigi Sturzo.
Pur rivendicando una propria autonomia decisionale, quindi, la Dc aveva un rapporto molto stretto con la Chiesa, poi allentatosi sia a causa di una volontà di autonomia decisionale della Dc, sia a causa della progressiva secolarizzazione della società. Abbiamo avuto modo di notarlo anche parlando dei Comitati Civici, che furono una sorta di cerniera tra il partito e il mondo delle parrocchie e nacquero con lo scopo di impostare la campagna elettorale del 1948 in funzione anticomunista, quando papa Pio XII temette un’avanzata dei socialisti e dei comunisti. E infatti, tramite i Comitati Civici, si tentò di spingere la Dc verso un’alleanza tra democristiani, monarchici e missini, guidata da Luigi Sturzo, in alternativa alla sinistra. Progetto che vide l’opposizione del partito, contrario ad alleanze con i neofascisti del Msi, ma anche con i monarchici, accusati dalla Dc di massoneria, di essere falsi difensori della fede cattolica, come si legge in un volantino custodito nel Museo Diocesano, risalente agli anni ‘50.
L’ostilità al partito comunista fu anche manifestata dalla scomunica ai comunisti, elaborata con un decreto della Congregazione del Sant’Uffizio del luglio ’49 e firmata da Pio XII, con cui si dichiarò grave peccato l’iscrizione al Pci, da considerarsi apostasia e quindi meritevole di denuncia.
Comunisti e socialisti, d’altro canto, erano ideologicamente molto distanti e non erano certo teneri nel giudizio contro la Chiesa e le religioni.
«La religione è il singhiozzo di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito. È l’oppio dei popoli» scrisse Karl Marx nella sua “Critica della filosofìa hegeliana del diritto pubblico”. Nella concezione comunista o, almeno, in larga parte dei comunisti, storicamente, la è uno strumento potente, in mano agli oppressori, per il mantenimento dell’ineguaglianza, dello sfruttamento e dell’obbedienza servile dei lavoratori. Una concezione alla base dell’istituzione, in molti regimi comunisti, di un ateismo di stato finalizzato allo sradicamento delle religioni.
Non mancarono, specialmente nelle stagioni più calde della storia d’Italia, episodi di violenza ai danni di religiosi. Soprattutto nel Nord Italia, in regioni come l’Emilia-Romagna, dove più forte era la presenza comunista e dove più forti erano gli echi della guerra civile, duri a morire anche dopo il ’45. Ma anche da noi non mancarono. Nei tumulti del ’47, infatti, un ordigno ferì don Pasquale Dileo, cappellano della chiesa del Carmine. Spesso, infatti, tra le accuse mosse alla Chiesa, vi era quella di essere più vicina ai latifondisti che ai poveri contadini.
Ma, a parte l’originale elaborazione marxista e questi episodi di violenza, la “questione cattolica” è sempre stata al centro della politica e della elaborazione ideologica del Partito Comunista Italiano. Soprattutto con la svolta di Salerno dell’aprile ’44, attuata da Palmiro Togliatti, su impulso dell’Unione Sovietica, per trovare un compromesso tra i partiti antifascisti, la monarchia e Badoglio, in modo da consentire la formazione di un governo di unità nazionale con tutte le forze politiche del Comitato di Liberazione Nazionale, accantonando quindi temporaneamente la questione istituzionale e la pregiudiziale antimonarchica. Quella svolta fornì, ai comunisti, l’occasione per un’apertura alla libertà di culto e al rispetto della religione cattolica e del ruolo della Chiesa all’interno della realtà italiana. Un’aperta ostilità avrebbe avuto l’effetto di isolare il partito. Inoltre, non erano pochi i comunisti e i socialisti che continuavano a dirsi credenti e cattolici.
Naturalmente, tutto ciò aveva anche riflessi nella vita delle città, dove spesso le contrapposizioni politiche erano tuttavia smorzate dalla convivenza, soprattutto nelle realtà più piccole, nei paesi. Giovanni Guareschi, sul tema, ha dedicato una fortunata serie di romanzi ambientati in un paesino dell’Italia Settentrionale, con protagonisti il sacerdote don Camillo e il sindaco comunista Peppone, amici dal punto di vista umano, ma nemici da quello politico. Romanzi poi diventati film, con la saga cinematografica di don Camillo e Peppone, interpretati da Fernandel e da Gino Cervi. Opere che, con ironia, descrivono la realtà dell’immediato dopoguerra e il rapporto tra cattolici e mondo comunista e socialista, alla luce di contrapposizioni ideologiche e contraddizioni umane.
E anche a Bitonto, se da un lato ci fu l’episodio del ferimento del parroco, nel ’47, nello stesso periodo, furono le religiose del monastero di Santa Maria delle Vergini a tessere, per la sezione locale del Partito Comunista, un quadro raffigurante falce e martello, il classico simbolo comunista, ancora appeso nella sezione dell’odierno Partito Democratico.