Se si parla di terrorismo negli anni ’70, subito vengono in mente, il più delle volte, quello di stampo fascista e quello comunista. Estremismi che insanguinarono l’Italia per oltre un decennio e che porteranno a ricordare quel periodo come “anni di piombo”.
Ma, purtroppo, non fu il solo terrorismo che insanguinò l’Italia. Ci fu anche un altro, non meno spietato dei primi due. Anzi, tutt’altro. Parliamo del terrorismo palestinese che, tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’80, fu responsabile di una lunga scia di stragi e massacri nel continente europeo.
Oggi, probabilmente, potremmo essere portati ad associare questo terrorismo a quello di matrice islamica. Ma, in realtà, quello palestinese era un fenomeno terroristico a sé, in cui confluivano varie organizzazioni, a loro volta divise in svariate correnti. C’erano organizzazioni islamiste, certo, ma ce n’erano anche altre di stampo marxista, socialista, nazionalista. Gruppi diversi, ma accomunati dall’obiettivo di una Palestina libera dalla presenza di Israele.
Per comprendere meglio la questione palestinese bisogna fare un lungo salto indietro. Fino al XIX secolo, quando la Palestina era ancora sotto l’Impero Ottomano, in una zona che, a partire dal 1869, quando fu aperta quella grande opera ingegneristica e strategica che è il Canale di Suez, si trovò ad acquisire un’importanza sempre maggiore, dal punto di vista economico e non solo.
Il Canale, unito alla scoperta di importanti giacimenti petroliferi, rese quell’area molto interessante per le potenze europee, che avevano un bisogno sempre maggiore di fonti di energia per la loro economia che si industrializzava sempre più. E così, quando, con la Prima Guerra Mondiale, l’Impero Ottomano crollò, i paesi europei colonizzarono l’area, contribuendo a far radicare sempre più un sentimento nazionalista in quelle terre. L’area della Palestina fu occupata dai britannici. Una zona dalla maggioranza islamica che, prima sotto gli ottomani e poi sotto gli inglesi, vide sorgere, a cavallo tra i secoli XIX e XX, i primi insediamenti ebraici, mossi dalla causa sionista. Il sionismo, infatti, movimento per l’autodeterminazione del popolo ebraico, iniziò nella seconda metà dell’800 a sognare uno stato puramente ebraico, dove fosse assente quell’antisemitismo che aveva causato e continuava a causare forti sofferenze. Prima di allora c’erano state correnti migratorie ebraiche verso la Palestina, ma avevano solamente natura religiosa. Dal XIX secolo il movimento si connotò anche di una natura più laica e prettamente politica, sebbene, fino alla prima metà del ‘900 rimase minoritario. Per ingrandirsi, pian piano, attraverso le varie ondate migratorie ebraiche verso la Palestina scatenate dai pogrom nella Russia Zarista, dalla guerra civile che seguì la Rivoluzione Russa, dal crescente antisemitismo nell’Europa del primo dopoguerra e, infine, dall’avvento del nazismo tedesco. Furono soprattutto le atrocità vissute a causa del Terzo Reich a portare un movimento minoritario come quello sionista, ad essere via via più grande ed influente. Per sfuggire agli orrori del nazionalsocialismo tedesco, molti ebrei emigrarono verso la Palestina, accrescendo gli insediamenti e iniziando a scontrarsi con gli arabi che abitavano quelle terre. Le fazioni più estremiste del movimento sionista arrivarono anche ad aggredire gli inglesi, accusati di voler porre un argine all’afflusso di ebrei.
Il Regno Unito, nel ’47, annunciò di voler cessare la sua presenza in Palestina, proponendo la divisione della zona in due stati di estensione uguale. Agli arabi sarebbe andata la Palestina Occidentale (quella orientale era diventata Giordania). Una divisione approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che portò alla nascita, nel ’48, dello Stato di Israele. La notizia fu accolta con gioia dagli ebrei. Molto meno bene fu accolta dagli arabi, sia per motivi religiosi, sia perché ad una popolazione minoritaria veniva assegnata un’area che superava la metà del territorio totale. Un’area destinata ad aumentare sempre più quando Israele iniziò a conquistare un territorio più ampio di quello promesso dalle Nazioni Unite. In risposta, la Giordania occupò la Cisgiordania, mentre l’Egitto la cosiddetta “Striscia di Gaza”, portando alla divisione della città di Gerusalemme. Mentre i paesi del mondo arabo non riconobbero mai lo Stato di Israele, profughi ebrei accorsero sempre più, negli anni seguenti, dal mondo arabo, che iniziò ad espellerli e a confiscare i loro beni.
Il primo conflitto tra israeliani ed arabi ci fu, dunque, già tra il ’48 e il ’49, in occasione della nascita dello stato ebraico. Il secondo fu in conseguenza della crisi di Suez del ’56 e della successiva guerra con l’Egitto, dopo la decisione di quest’ultimo di nazionalizzare la compagnia che gestiva il Canale. La situazione precipitò con la guerra dei sei giorni (terzo conflitto arabo-israeliano), quando Israele conquistò la penisola del Sinai, vincendo contro una coalizione di stati composta da Egitto, Giordania e Siria. Una vittoria che causò grandi squilibri nell’area. Nel ’73, infine, Egitto e Siria, attaccando di sorpresa Israele, riuscirono a sottrare a quest’ultimo il controllo del Canale di Suez. Ma questa volta, il riaccendersi delle violenze, portarono all’intervento dei Caschi Blu dell’Onu, dando inizio ad una nuova fase politica in cui si iniziarono a fare dei passi verso la pace nell’area.
E veniamo dunque a noi. Fu in questa situazione incerta e burrascosa, che nacque il fenomeno del terrorismo palestinese, che negli anni ’70 decise di portare il conflitto arabo-israeliano fuori dal Medioriente, sia per colpire gli alleati di Israele, in primis gli Stati Uniti, sia nella consapevolezza che solo portando il terrore in Occidente, quest’ultimo avrebbe dato la giusta attenzione alla causa palestinese.
Tra i primi stati europei a provare la ferocia dei terroristi fu la Germania Occidentale, nel ’72, durante le Olimpiadi di Monaco. Alcuni terroristi di Settembre Nero, organizzazione di stampo socialista, nata due anni prima, uccisero 11 atleti israeliani e un poliziotto tedesco, prima di essere uccisi o arrestati. Dopo la Germania, ad essere vittima della barbarie fu l’Italia, che già un mese prima della strage di Monaco era stata luogo di un attentato all’oleodotto della Siot vicino Trieste. Ma la mattanza vera e propria avvenne il 17 dicembre 1973, quando, all’aeroporto internazionale “Leonardo Da Vinci” di Fiumicino. Aeroporto che già cinque anni prima era stato luogo di un fallito sequestro di ostaggi da parte dei marxisti del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina.
Alcuni terroristi irruppero nello scalo italiano compiendo quella che fu la più sanguinosa strage su suolo italiano negli anni ’70. Non fu una data casuale il 17 dicembre. In quel giorno si teneva il processo a tre dei palestinesi che, ad Ostia, erano stati trovati in possesso di alcuni missili che sarebbero serviti per colpire l’aereo sul quale viaggiava il primo ministro israeliano Golda Meir, ma furono arrestati. Altri due furono, invece, consegnati alle autorità libiche, dopo essere stati caricati sull’aereo militare Argo 16, lo stesso che poco tempo dopo esplose in volo per cause mai chiarite, ma secondo diverse voci, a causa di un sabotaggio del Mossad, il servizio segreto israeliano, come rappresaglia per quella liberazione. Ancora oggi sulla vicenda c’è il segreto di stato.
Torniamo a Fiumicino. Ancora una volta, gli autori dell’attentato furono i fedayyn (come erano chiamati i guerriglieri palestinesi) di Settembre Nero. Cinque di loro iniziarono a sparare prima verso le telecamere, poi all’impazzata, per creare panico tra le migliaia di persone che popolavano, come ogni giorno, lo scalo internazionale. Erano atterrati con un aereo proveniente da Madrid, confondendosi tra alcuni pellegrini diretti a La Mecca. Mentre uno di loro sparava, gli altri immobilizzarono sei agenti di pubblica sicurezza. Tra questi il bitontino Francesco Lillo, un ragazzo di appena 22 anni che provò a reagire, avendo la meglio, inizialmente, su uno dei terroristi, salvo poi essere colpito alla nuca e stordito con il calcio del fucile da un altro. Gli altri erano Salvatore Fortuna, Vincenzo Tomaselli, Andrea Diliberto, Mario Muggianu e Ciro Strino, che durante la sparatoria fu ferito al petto. Oltre a loro vennero sequestrati anche l’appena ventenne guardia di Finanza Antonio Zara e l’operatore dell’Asa (la compagnia che gestiva l’aeroporto) Domenico Ippoliti.
Mentre i terroristi li disarmavano e li prendevano in ostaggio, alcuni di loro si diressero in pista, verso un aereo della compagnia americana Pan American, in sosta in attesa di partire. Entrarono e lanciarono all’interno alcune bombe al fosforo. Fu un massacro. 32 persone rimasero uccise, bruciate dal fosforo e carbonizzate all’interno del velivolo che, oltretutto, se non esplose fu solo per il tempestivo arrivo dei vigili del fuoco, che sfidarono il pericolo dei terroristi e del fuoco.
Compiuto il massacro, gli altri terroristi si diressero, con gli ostaggi, verso un aereo della Lufthansa, prendendo altri ostaggi tra il personale di volo. In totale 14 furono gli ostaggi, che furono imbarcati sull’aereo tedesco. Tra questi, purtroppo, non ci fu il finanziere Zara, che prima ebbe l’ordine di andare via e poi fu sparato alle spalle, con una pallottola che gli perforò il cuore, uccidendo all’istante il ventenne molisano. Davanti alle forze dell’ordine a cui era stato ordinato di non sparare, per evitare di colpire gli ostaggi, l’aereo partì alla volta della Grecia, dove i terroristi speravano di ricattare il governo locale per far liberare due terroristi arrestati tempo prima. In un lungo tira e molla con il governo ellenico, a rimetterci la vita fu Ippoliti, che venne sparato, buttato in pista e schiacciato dall’aereo che si rimise in moto quando lo scambio di prigionieri non andò in porto. Meglio andò al poliziotto ferito Ciro Strino, a cui fu concesso di scendere dall’aereo, per essere soccorso dai greci.
Il velivolo continuò la sua avanzata verso il Medioriente, dopo che Cipro, Libano e Siria rifiutarono di dare ospitalità al commando. Ore terribili per gli ostaggi, tra cui il bitontino, che raccontò, attraverso le voci dei testimoni, la tragica esperienza alla giornalista Annalisa Giuseppetti, autrice, insieme a Salvatore Lordi, di un libro su quella che fu una strage dimenticata.
La vicenda tenne con il fiato sospeso tutta Italia e, in particolare, le famiglie dei sequestrati, tra cui quella del bitontino Lillo, che abitava in una modesta casa nel centro storico, come riportano i resoconti dell’Unità e della Gazzetta del Mezzogiorno, che seguirono la vicenda incontrando anche i familiari.
«Spero che mio figlio si salvi, si salvi con gli altri» fu l’unico commento che la madre del poliziotto ventiduenne riuscì a dire al cronista dell’Unità, mentre l’angoscia per la sorte del figlio la costringeva in quel letto che fu immortalato nelle fotografie pubblicate dalla Gazzetta del Mezzogiorno.
Da diversi paesi, anche quelli del mondo arabo, arrivò un’unanime manifestazione di sdegno per quel vile attentato e per il successivo sequestro di ostaggi. Dal presidente del Consiglio Mariano Rumor, dal presidente della Repubblica Giovanni Leone che parlò di “crimini contro gli sforzi di pace”, dalle forze politiche, persino da quelle più vicine alla causa palestinese.
Non era meno angosciante la situazione degli ostaggi, sorvegliati a vista dai fedayyn, impossibilitati persino a parlare tra loro, sotto minaccia di morte. Se lo ricorda bene, nel libro già citato, Lillo, che manifestò all’austriaca Helene Hanel, della compagnia di volo tedesca, la volontà di provare a reagire. Proposito subito bocciato dalla ragazza, che gli fece notare che se avesse provato a fare qualsiasi cosa, i terroristi avrebbero ammazzato tutti. Soprattutto nelle condizioni in cui erano dopo tante ore di viaggio e dopo tanti dinieghi all’atterraggio, che li avevano resi nervosi. Ammanettati con le loro stesse manette, sotto la minaccia dei mitra, gli ostaggi vennero anche costretti ad implorare aiuto alla radio, come prova di forza verso gli aeroporti in cui provavano a chiedere di atterrare. Ma nessuno stato arabo voleva prendersi quella patata bollente.
L’incubo finì in Kuwait, che nonostante la ritrosia iniziale, concesse l’atterraggio, obbligando il commando a liberare gli ostaggi. Fu la fine di un incubo. Poterono dunque tornare in Italia.
«A me sembra che nessuno si sia interessato. Diversamente ho notato gli sforzi portati avanti dalla Germania, di concerto con la sua compagnia di bandiera, per cercare una via di uscita alla vicenda» fu il duro atto di accusa di Lillo alla politica italiana, in una dichiarazione rilasciata alla stampa.
Ricoverato per qualche giorno all’ospedale militare di Roma, Lillo uscì alla Vigilia di Natale, in tempo per prendere il primo treno per Bitonto e festeggiare in casa.
Dei terroristi, invece, consegnati dalle autorità kuwaitiane all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di Arafat, non si seppe più nulla.
Nella vicenda del terrorismo palestinese, emblematico fu il ruolo giocato dalla politica italiana. Alleata di Israele e Usa, l’Italia, tuttavia temeva che una netta presa di posizione avrebbe trasformato il suo territorio in un obiettivo per altri sanguinosi attentati come quello di Fiumicino. Un timore che c’era già prima, come testimoniò la consegna ai libici dei terroristi che volevano colpire l’aereo di Golda Meir, ma che dopo la mattanza dell’aeroporto divenne ancora più forte. Fu in questo contesto che venne redatto e firmato il cosiddetto “Lodo Moro”, dal nome del presidente del Consiglio Aldo Moro. Fu un patto segreto di non belligeranza tra l’Italia e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, gruppo che faceva parte dell’Olp. L’Italia si impegnava a garantire il passaggio sul proprio suolo di militanti e armi (spesso in questo i palestinesi erano aiutati da gruppi terroristici italiani di estrema sinistra). I palestinesi, in cambio, si impegnavano a non organizzare altri attentati su suolo italiano, fatta eccezione per obiettivi israeliani e statunitensi. Del documento non esiste alcuna traccia e della sua esistenza si sa da fonti indirette. Ad ogni modo, mentre per tutto il decennio i fedayyn insanguinavano l’Europa, L’Italia fu risparmiata da altri attentati. Almeno fino all’82, anno in cui i terroristi colpirono la sinagoga di Roma, uccidendo un bambino di due anni e ferendo 37 persone. Fu l’85, tuttavia, l’anno in cui la follia terrorista tornò in tutta la sua violenza, con un ennesimo attentato all’aeroporto di Fiumicino, in cui morirono16 persone (inclusi 3 terroristi). Un attentato che, ancora una volta dopo l’omologo del ’73, fu fonte di critiche al governo italiano, da parte dell’opinione pubblica, reo di non essere riuscito ad evitare la carneficina, nonostante ci fossero state notizie su una probabile azione dei terroristi.
L’85 fu anche l’anno del sequestro della nave Achille Lauro, avvenuto al largo delle coste egiziane. Episodio che portò ad una gravissima crisi diplomatica tra Italia, che rivendicava che dovesse essere la giustizia italiana ad occuparsi dei terroristi, e Stati Uniti, intenzionati a far valere le proprie ragioni, dopo l’omicidio, sulla nave, di Leon Klinghoffer, passeggero statunitense ed ebreo.