Il 25 e il 26 giugno 2006 si tenne il secondo referendum costituzionale italiano, dopo quello del 2001 sulla riforma del Titolo V della Costituzione italiana.
Questa volta, oggetto dell’iniziativa referendaria del centrodestra era la riforma diretta a modificare sotto più profili la seconda parte della Costituzione italiana. Una riforma che rispondeva ad una volontà da sempre esistente a destra di rafforzare il ruolo del governo, nel tentativo di garantire più stabilità. Oltre che alla volontà di velocizzare l’attività parlamentare. Sin dagli anni ’60, infatti, da destra, si rimproverava il sistema parlamentare italiano di essere una “lentocrazia”.
Non solo. Nei proponenti forte era anche la componente antipartitocratica presente sin dalla Prima Repubblica, quando la retorica della lotta alla partitocrazia servì contro i partiti tradizionali.
«Approvate il testo della Legge Costituzionale concernente “Modifiche alla Parte II della Costituzione” approvato dal Parlamento e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 269 del 18 novembre 2005?» recitava il quesito sottoposto a consultazione referendaria.
Più precisamente, la legge proposta dal centrodestra mirava a ridurre il numero di deputati da 630 a 518 e di senatori da 315 a 252. Proponeva di modificare l’elezione dei senatori in modo da eleggerli eletti contestualmente all’elezione dei consigli regionali; di trasformare i senatori a vita in deputati a vita; di diminuire l’età minima, da 25 a 21 anni, per essere eletti alla Camera e quella per il Senato, da 40 a 25 anni.
Si puntava, inoltre, a superare il bicameralismo perfetto e alla divisione del potere legislativo tra Camera dei Deputati e Senato federale per velocizzare i processi legislativi e l’approvazione delle leggi. La Camera si sarebbe occupata di leggi di competenza statale, mentre il Senato di leggi di competenza concorrente.
Al Presidente della Repubblica sarebbe toccato non solo il ruolo di garante della Costituzione, ma anche quello di custode dell’unità federale della Repubblica, mentre i poteri del Primo Ministro sarebbero stati ampliati, con la possibilità di sciogliere la Camera dei Deputati (possibilità che avrebbe sottratto al capo dello stato che può farlo ma solo dopo aver riscontrato l’impossibilità di trovare altre maggioranze per proseguire l’attività legislativa fino alla naturale scadenza del mandato).
Si proponeva, infine, una clausola contro i cambi parlamentari di maggioranza, con l’introduzione della cosiddetta “sfiducia costruttiva”, in base alla quale la Camera avrebbe potuto sfiduciare il governo solamente se, poi, entro venti giorni avesse nominato uno primo ministro. Altrimenti, si procedeva allo scioglimento della Camera e, dunque, a nuove elezioni.
Proposte di modifica costituzionale che dividevano profondamente la politica italiana. Se da un lato a destra si spingeva per l’approvazione, nell’ottica di una maggior stabilità governativa e della velocizzazione dei processi decisionali, a sinistra si sosteneva che il superamento del bicameralismo perfetto e l’approvazione delle leggi da parte della sola Camera dei Deputati avrebbe portato a leggi meno ponderate. Da sinistra, inoltre, si denunciava il tentativo di rafforzare il ruolo del governo e di rendere più difficoltosa la sfiducia al Primo Ministro.
Il referendum non passò. Il fronte del No vinse con il 61,3%, contro il 38,7%. Una tendenza confermata anche a Bitonto, dove però i contrari alla riforma costituzionale del centrodestra ottennero il 71,94%, contro il 28,06%.
L’astensione fu molto alta, confermando la tendenza già in corso dalla fine degli anni ’70. Votò il 53,6% di italiani, mentre la percentuale a Bitonto si fermò al 44,54%.
Il progetto del centrodestra fallì, ma a riprenderlo, nella parte relativa al taglio dei parlamentari sarà, diversi anni dopo, il Movimento 5 Stelle.