Uno dei primi partiti ad animare la vita politica dell’Italia post-fascista fu il Partito d’Azione, nato già nel ’42, a conflitto ancora in corso, quando si costituì clandestinamente a Roma, e, nella sua breve vita (si sciolse nel ’47), ebbe come leader Ferruccio Parri, Emilio Lussu, Ugo La Malfa e Riccardo Lombardi.
Nel nome e nei principi si ispirò all’omonimo partito fondato nel 1853 da Giuseppe Mazzini, che aveva sostenuto le campagne di Garibaldi per l’Unità d’Italia. Si costituì quando, con i primi insuccessi militari della Seconda Guerra Mondiale e con l’indebolimento del regime fascista, alcuni tra gli oppositori di quest’ultimo, di ideologia repubblicana, sentirono l’esigenza di costituire un nuovo soggetto politico, dato che a causa della persecuzione del regime era stata trasferita all’estero l’organizzazione dei principali partiti di sinistra.
Tra i punti principali del programma politico del PdA vi furono il decentramento politico-amministrativo su scala regionale, che avverrà qualche decennio più tardi, la nazionalizzazione dei grandi complessi industriali, la riforma agraria, la libertà sindacale, la laicità dello stato, con una netta separazione tra Stato e Chiesa, e una federazione europea di stati democratici liberi. L’antifascismo era uno dei principi che animò il Partito d’Azione. Molti dei suoi membri venivano dall’esperienza delle brigate “Giustizia e Libertà”, una delle formazioni partigiane che aveva fatto la lotta partigiana, quella più numerosa dopo le Brigate Garibaldi, di ispirazione comunista. Il fascismo era accusato della perdita dei valori di libertà, solidarietà e fratellanza ispirati dalla Rivoluzione Francese. Ma allo stesso modo si rifiutava anche la monarchia, ritenute responsabile e artefice del trionfo del fascismo. Tanto che, insieme a comunisti e socialisti, proponeva l’abolizione del sistema monarchico e la costituzione della Repubblica, ritenuta l’unica istituzione in grado di liberare l’uomo dalla schiavitù. Ma la critica era spesso mossa anche agli altri partiti per non aver saputo fermare in tempo l’avvento di Mussolini. Alla Democrazia Cristiana rimproverava di essere conservatrice e immobilista, mentre con socialisti e comunisti, con cui c’erano diversi punti di contatto, c’erano divergenze sulla proprietà privata e sul concetto di dittatura del proletariato, identificato con la dittatura del partito. Era in gran parte socialista liberale e molto distante dall’ideologia liberista, specialmente nelle componenti interne di sinistra (quelle di Bruno Trentin, Emilio Lussu, Riccardo Lombardi e Vittorio Foa), caratterizzate dalle volontà di parziale socializzazione dei mezzi di produzione e di democratizzazione del sistema produttivo. La maggior parte delle anime del partito vedeva con favore la nazionalizzazione dei grandi complessi industriali e dei servizi pubblici come acqua, energia elettrica, autostrade, distribuzione di combustibili e riscaldamenti, gas.
Quando il 28 gennaio ’44 si celebrò a Bari, nel Teatro Piccinni, il Congresso dei Comitati Provinciali di Liberazione, il PdA partecipò e nell’Assemblea Costituente furono sette gli esponenti provenienti da esso, avendo ottenuto solo l’1,5 dei voti alle elezioni del 2 giugno ’46. Nel ’47, tuttavia, le divergenze ideologiche, dovute alle varie correnti che costituivano il PdA, portarono quest’ultimo allo scioglimento, avvenuto nell’ottobre ’47, quando si decise la confluenza nel Psi e la cessazione del partito.
La sede, a Bitonto, era in via Mercanti, nel centro storico, poco prima del Sedile di Sant’Anna e di Palazzo Bove, prima di trasferirsi in corso Vittorio Emanuele II, grazie all’intervento dell’allora sindaco comunista Arcangelo Pastoressa. A fondare la sezione locale del partito fu il professor Vito Nicola Marannino, su invito degli amici azionisti di Bari, tra cui Fabrizio Canfora, Michele D’Erasmo, Giuseppe Bartolo.
Marannino, di fede socialista, nell’aprile del ’93 al “da Bitonto” ricordò la sua esperienza azionista, partendo dai primi ricordi della sua vita politica, quando da ragazzino andava ad ascoltare i comizi di Gaetano Salvemini.
«M’impressionava l’adesione, l’entusiasmo degli ascoltatori; le idee socialiste del grande molfettese si diffusero rapidamente tra i bitontini. Il prof. Salvemini, venerato da questi, fu eletto deputato. Ricordo che in via Termite, sotto l’arco che si trova di fronte al fabbricato rinascimentale, era stata posta in una piccola nicchia accanto ad un’immagine sacra, una sua fotografia, davanti alla quale vi era un lumicino ad olio, sempre acceso ad opera della gente del vicinato» ricordò Marannino sulla figura di Salvemini.
Dopo la maturità classica, ottenuta al liceo “Carmine Sylos” nel ’26, si iscrisse alla facoltà di Lettere dell’Università di Firenze, dove insegnava proprio Salvemini, ma al suo arrivo, l’anno successivo, nel capoluogo toscano, il politico molfettese si era già rifugiato negli Stati Uniti per fuggire alla persecuzione fascista. Persecuzione di cui egli stesso fu vittima, dopo che rifiutò di iscriversi al Guf, Gruppo Universitario Fascista, di Bitonto. Fu per questo denunciato e sorvegliato per quattro anni. In quell’intervista Marannino ricordò anche l’amicizia con colui che fu incaricato di tenerlo sott’occhio, spiandolo e rovistando tra le sue cose alla ricerca di prove di attività antifasciste. Amicizia mantenuta per il resto della vita.
Il PdA a Bitonto ebbe vita ancor più breve che nel resto d’Italia. Non sopravvisse, infatti, alle elezioni del 1946. Tra gli iscritti alcuni confluirono nella Democrazia Cristiana, altri nel Partito Socialista e altri ancora in quello Comunista.