Il 1977 fu un anno di svolta per l’Italia, per la sua politica e per il mondo della sinistra extraparlamentare. Un mondo, ricordiamo, costellato di tanti piccoli partiti e movimenti nati in contrapposizione alla politica tradizionale, agli stessi partiti socialista e comunista e ai sindacati. Un mondo nato dalle proteste giovanili, studentesche e dei lavoratori del Sessantotto, ma che, verso la seconda metà degli anni ’70, iniziò a manifestare una crisi. Segno che lo stesso spirito del Sessantotto iniziava a disperdersi. Molte organizzazioni iniziarono a sciogliersi, a partire dal ’76, come Lotta Continua (nonostante continuasse la pubblicazione del periodico omonimo). Al posto di molti gruppi nacque Democrazia Proletaria, che fu una sorta di cartello elettorale che raccolse tutte le sigle che, prima, agivano singolarmente e si rifiutavano di accedere nel sistema politico parlamentare. Parteciparono, dunque, sia alle regionali del ’75 che alle politiche del ’76, guadagnandosi l’ingresso alle due Camere e in molte amministrazioni locali.
Ma, al tempo stesso, se da un lato quel mondo cominciava a svanire inesorabilmente, nel ’76, la controcultura del Sessantotto visse una seconda utopia, rappresentata da un riaccendersi di proteste, movimentismo, protagonismo politico di studenti e giovani lavoratori. Fu questo il contesto in cui nacque il Movimento del ’77, un movimento politico spontaneo che mise in discussione non solo politica, partiti e sindacati, già criticati negli anni precedenti, ma anche le stesse organizzazioni che, fino a quel momento, avevano animato la protesta, portando avanti istanze che erano ancora inedite. Alla base di questa evoluzione della sinistra extraparlamentare fu l’avvento di un’università sempre più di massa, in cui l’istruzione, democratizzandosi sempre più, anche grazie alla legge 162/1969 sull’assegno di studio universitario, consentì l’accesso non più solamente ai figli delle famiglie benestanti, ma anche a ragazzi provenienti da famiglie più povere.
Altri fattori importanti per la nascita del Movimento del ’77 furono le rivendicazioni femministe e del Partito Radicale, la diffusione di una cultura cosiddetta “underground”, della cultura hippy e di molte testate giornalistiche dedite alla controinformazione e, infine, la liberalizzazione delle frequenze radiofoniche del ’76, che, favorendo la nascita di molte radio “libere”, diede terreno fertile per la diffusione di nuove istanze e nuovi modi di manifestare.
Il Movimento si caratterizzò per la presenza di due anime. La prima fu più trasgressiva, creativa e non violenta. Un’anima vasta ed eterogenea, arcipelago composto da svariati gruppi culturali e politici di sinistra.
Poi, c’era un’altra anima, che si proponeva di fare una lotta politica dura ed intransigente, che talvolta sfociò in violenza. Un’anima rappresentata da Autonomia Operaia e dai suoi ideologi e caratterizzata da nuovi metodi di lotta politica che prevedevano l’azione diretta, attraverso la riappropriazione di spazi e beni rivendicati come diritto, come case abbandonate o sfitte, gli espropri proletari nei supermercati, la spesa proletaria, l’autoriduzione di bollette e dei prezzi dei servizi (“I proletari hanno diritto al lusso” recitava uno slogan). E che, sin dai primi anni ’70, sulla stampa di estrema sinistra aveva teorizzato anche la lotta armata. Contesto, questo, che, consapevolmente o meno, fornì terreno fertile alla futura crescita del terrorismo e della violenza in generale, che già dal ’76 aveva purtroppo iniziato la sua tragica scia di sangue, con bottiglie incendiarie e pistole P38 che divennero simboli di quegli anni bui. Tanto che, nel ‘79, ebbe inizio il processo contro i leader di Autonomia Operaia, tra Toni Negri e quelli che, come lui, furono definiti “cattivi maestri”.
Ma, al momento, tralasciamo questo aspetto, preferendo, oggi, concentrarci sulla prima anima del Movimento del ’77. Un’anima in cui «si parla, insieme di comunismo e di strategia dei desideri, si mescolano i valori egualitari della sinistra e quelli permissivi delle società capitalistiche avanzate. Pane e rose e rose recita uno slogan di quei tempi» spiegò Sergio Zavoli, nell’89 in “La notte della Repubblica”, uno dei capolavori Rai dell’inchiesta storica italiana.
In quell’anno si tennero diverse manifestazioni che coinvolsero fasce di popolazione emarginate, specialmente tra i residenti delle periferie nate nei decenni precedenti, quartieri di lavoratori abbandonati al degrado e all’assenza di servizi. Una protesta verso le condizioni di studenti e lavoratori nelle grandi città, contro l’inflazione e le misure prese dal “governo dei sacrifici” per rallentarla, contro gli appelli all’austerità del segretario comunista Enrico Berlinguer e contro il compromesso storico che, sin dalle elezioni politiche del ’76, si andava delineando tra Dc e Pci.
Oggetto delle contestazioni furono, prima della Democrazia Cristiana e della politica istituzionale, anche e soprattutto il Pci di Enrico Berlinguer e la Cgil di Luciano Lama, accusati di andare a braccetto con i “padroni”, di non tutelare il proletariato e di non saperne cogliere le istanze.
Il Movimento del ’77 nacque dalla sempre maggiore consapevolezza del fallimento del Sessantotto.
«Il Sessantotto, ricco di idee ma privo di progetti, era fallito e la fantasia non era andata al potere» disse sempre Zavoli. Un senso di fallimento che, diversi anni dopo, avrebbe cantato anche Vasco Rossi in “Stupendo”.
Era fallito, sì, ma aveva comunque innescato una carica che prima o poi si sarebbe fatta risentire. E quell’occasione si ebbe nel ’77, quando si provarono a correggere gli errori del ’68. Sin dall’inizio degli anni ’70 si erano formati diversi circoli, movimenti, comitati in fabbriche, università, borgate. Gruppi diversi tra loro per ispirazione, ma che, in comune, avevano l’avversione alle istituzioni dell’ordine costituito. Da quelle politiche a quelle economiche e culturali. Avversione che non risparmiava, dunque, partiti politici e sindacati e che, nel mese di febbraio, si scagliò, a Roma, contro il segretario della Cgil Luciano Lama, contestato duramente e cacciato dall’Università La Sapienza. Lama e la Cgil erano gli obiettivi di una lotta contro la normale contrattualità gestita dai sindacati e dai partiti che, per i manifestanti, non rispondevano più agli interessi della gente.
«Ero uno dei dirigenti del movimento. Quel giorno in cui tirarono bulloni, c’ero anche io all’Università di Roma, a cacciare via Lama. E ora sono qui, a rendergli omaggio. Vogliamo rendergli omaggio perché ebbe il coraggio di tentare un dialogo difficile» fu il ricordo, riportato su Repubblica nel giugno ’96, in occasione dei funerali del sindacalista, di Enzo Modugno, bitontino, tra i protagonisti di quell’ondata di contestazioni di cui ha parlato nel suo ultimo libro “Il cybercapitale”, in cui analizza l’avvento della cibernetica che si è tradotta in un rafforzamento del controllo capitalistico sul lavoro e dello sfruttamento dei lavoratori, anziché essere un’occasione di liberazione.
«Il Movimento del ’77 si scontrava con una sorta di postfordismo strutturale, che non fu mai paragonato al fascismo: ma operai e studenti sentivano sulla propria pelle che, in realtà, il “compromesso storico” stava facendo lo stesso sporco lavoro, stava pian piano distruggendo la vecchia classe, per produrne una nuova da consegnare, opportunatamente disciplinata, al più sofisticato sistema di sfruttamento» è il parere di Modugno, che, nel ’76, diresse anche Marxiana, rivista di critica della politica e dell’economia.
Nel ’78 ebbe anche modo di confrontarsi con Giorgio Bocca e Indro Montanelli, quando furono ospiti di Match, programma di approfondimento, condotto dal giornalista Alberto Arbasino, che poneva a confronto figure di diverso schieramento.
In quell’occasione, parlando con Bocca delle terminologie usate dai giovani manifestanti e contestando la stampa tradizionale, disse: «Lì c’è un modo diverso di comunicare, che permette di non essere solo lettori passivi di un giornale che proviene dall’alto, come quello che propini tu. Il movimento riprende in mano la possibilità di comunicare e di superare questa apparenza di comunicazione che è il giornale o la televisione, cioè qualcosa che riduce alla passività. I ragazzi ridiventano protagonisti attivi».
«Un movimento rifiuta le strutture che potrebbero renderlo stabile: ed è proprio questa la sua forza, qualunque potere non riesce a controllarlo perché si presenta come un che nasconde gruppi spontanei. Con Bocca parlammo di questo e della possibilità di un golpe, che considerava più probabile con la presenza di lotte sociali. Era un monito inaccettabile per il movimento: smettetela o finiremo tutti nello stesso stadio. Noi pensavamo invece che un forte movimento antagonista avrebbe contribuito a dissuadere i golpisti (e ci piace pensare che sia andata veramente così). Ma parlammo soprattutto delle ragioni della “révolte logique” che durava dal ’68 e che riguardava le trasformazioni del modo di produrre e i sacrifici di quegli strati sociali che – come accade anche oggi – ne sopportavano i costi: abbandonati dalla politica ufficiale, e in particolare dal PCI di Berlinguer (che a lei piace tanto), i “non garantiti” provvedevano all’autodifesa nei movimenti di lotta» aggiunse qualche anno fa, rispondendo al giornalista Andrea Scanzi che, sul suo blog personale, lo aveva duramente criticato definendolo “movimentista di professione”, “pollo di allevamento del ‘77”, un “proto-troll” saccente con la pretesa di sentirsi superiore a Bocca.
Ma torniamo agli avvenimenti del ’77. In diverse città d’Italia si organizzarono proteste che, talvolta, portarono a scontri con la polizia e anche all’uccisione, da parte di quest’ultima, di manifestanti. Fu il caso di Francesco Lorusso, militante di Lotta Continua, colpito da un proiettile dopo le contestazioni all’assemblea di Comunione e Liberazione all’Università di Bologna, l’11 marzo ’77, e Giorgiana Masi, militante femminista uccisa a Roma da un proiettile molto probabilmente sparato da un agente in borghese. Le grandi città sembravano sull’orlo di una guerra civile.
Le manifestazioni esprimevano un disagio giovanile diffuso che, attraverso nuove forme di creatività, come quelle degli “indiani metropolitani”, così autodefinitisi per l’identificazione con i nativi americani e con la loro condizione di emarginazione, dei cosiddetti “fricchettoni” che si ispiravano agli hippy e ai movimenti di protesta d’oltreoceano, dei punk e di tanti altri gruppi. Una creatività che, in realtà, tentò di esprimere la disperazione e la povertà estrema di ampi strati emarginati della popolazione, spesso di origine meridionale. Fu cosa ben diversa, nonostante le radici in comune, da Autonomia Operaia e, poi, dalla violenza del terrorismo. Sarebbe un errore attribuire, in toto, a questi movimenti le responsabilità della violenza armata, nonostante una parte di essi strizzò l’occhio agli estremisti.
Ma, se il Movimento del ’77 rappresentò una seconda utopia dopo quella sessantottina, un tentativo di reagire a quel senso di lutto rimasto dopo il fallimento delle contestazioni precedenti, dall’altro lato, come sottolineò anche il giornalista Aldo Natoli del Manifesto, dall’altro fu anche il culmine di quella grande contestazione. Un culmine che precedette la dissoluzione totale che, negli anni immediatamente successivi, ci sarebbe stata, lasciando la scena alla sola violenza terrorista, fino ad allora latente ma che diventava via via più manifesta, fino a raggiungere la sua massima espressione nel ‘78.
E fu lo stesso Natoli che, intervistato dal collega Zavoli, sottolineò le colpe del Partito Comunista e dei sindacati che, non riuscendo a cogliere per tempo le istanze provenienti dal movimento, lo condannarono in toto, favorendo così l’afflusso di tanti ragazzi nelle fila della lotta armata. Un atteggiamento, quello dei comunisti, causato dalla difficoltà a comprendere in tempo una società che mutava rapidamente e dalla necessità di difendersi dagli attacchi degli stessi movimenti estremisti, che non avevano risparmiato politici e giornalisti di sinistra.
«Il Movimento è l’espressione di una grave crisi sociale e culturale, causata dalla diffusa disoccupazione giovanile, da un mutamento di valori molto forte, dall’ingente esodo dalla campagna alla città, che superava i ritmi richiesti dall’industrializzazione, lasciando molti senza lavoro, insieme ai tanti studenti che non avevano prospettive di occupazione» evidenziò lo storico Nicola Tranfaglia nella trasmissione della Rai, sottolineando come quell’anno segnò la fine di una certa sinistra e di un’ideologia che non tornerà mai più.
Nel ’77, sottolineò, infine, il giornalista Alberto Rochey, terminò il Sessantotto. Il Movimento, infatti, verso la fine degli anni ’70 si esaurì e le sue rivendicazioni continuarono ad essere rappresentate da collettivi studenteschi, centri sociali e altri gruppi della sinistra extraparlamentare. Oltre che da Democrazia Proletaria, che, collocandosi a sinistra del Pci, divenne un punto di riferimento per tutta quella galassia di gruppi.