Abbiamo parlato della Resistenza dell’antifascismo come valore fondante della Repubblica Italiana, sorta dalle ceneri del Ventennio, abbiamo parlato dell’Anpi, come realtà che si erse a rappresentante dell’esperienza partigiana, abbiamo parlato degli eredi del fascismo nel nuovo stato sorto dal referendum del ’46 e anche del periodo tra la cacciata al sud del fascismo e la fine della guerra.
Ma cosa è stato il fascismo e come si sono riflessi gli avvenimenti principali del Ventennio a Bitonto? Facciamo, oggi, un breve passo indietro, rispetto agli anni della Repubblica.
La nascita del regime fascista fu la marcia su Roma del 28 ottobre 1922, quando, dopo il congresso di Napoli, Benito Mussolini radunò 50mila squadristi e li fece marciare verso Roma. L’iniziativa si concluse due giorni dopo, con l’incarico, affidato dal re Vittorio Emanuele III allo stesso Mussolini, di formare un nuovo governo. Ma per risalire alle radici del movimento, bisogna andare indietro di qualche anno, al tempo del primo dopoguerra e della situazione politica instabile che lo caratterizzò.
Concluso il primo confitto mondiale, il Regno d’Italia si trovò in una situazione economica, politica e sociale precaria e difficile. Il conto in termini di vite umane della guerra fu pesantissimo: oltre 650mila erano stati i caduti (solo a Bitonto oltre 400) e circa 1 milione e 500mila erano tra mutilati, feriti e dispersi. A questo si aggiungeva il pesante conto delle distruzioni nell’Italia nord-orientale e le centinaia di migliaia di profughi. I debiti con le potenze straniere erano ingenti e le casse statali molto impoverite, anche perché la lira aveva perso molto del suo valore prebellico. Mancavano materie prime e il paese si trovò pure a dover smobilitare il Regio Esercito e a riconvertire le industrie belliche che erano servite nella Grande Guerra, in una situazione di mercato interno debole. La disoccupazione, dunque, fu altissima, dal momento che bisognava trovare una collocazione a tutti gli smobilitati, agli ex operai del settore bellico e a tutti quei combattenti che avevano aderito alle idee irredentiste, che si vedevano non riconosciuti i sacrifici fatti. Una situazione che avrà diversi punti in comune con la nascita, in Germania, del movimento nazionalsocialista di Hitler. La rivoluzione bolscevica in Russia aveva scatenato diverse paure nella piccola borghesia italiana, che si vedeva minacciata dall’insorgere del socialismo e dal grande capitalismo.
Inoltre, nonostante l’Italia fosse tra i paesi vincitori, si vide strappare le mire irredentiste su Dalmazia e Istria, a causa del progressivo insediarsi, ad est, di un nuovo stato Jugoslavo. Situazione, quest’ultima, che portò alla nascita del mito della vittoria mutilata, alla base della retorica fascista e della sua futura politica coloniale, insieme alla volontà di ergersi a baluardo della civiltà latina nel Mediterraneo, in antitesi alla Società delle Nazioni, verso cui non nascondeva scetticismo. Anche perché lo stesso Mussolini era stato tra i più accesi interventisti, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale.
Da tutto questo contesto nacque il fascismo, che trovò terreno fertile tra reduci e intellettuali interventisti, nazionalisti, anarchici e sindacalisti rivoluzionari. Negli anni precedenti alla Prima guerra mondiale, infatti, precursori delle idee che saranno fatte proprie dal fascismo furono i futuristi e il loro ispiratore Filippo Tommaso Marinetti che aderì successivamente al movimento di Mussolini), il decadentismo di Gabriele d’Annunzio e in numerosi altri pensatori e azionisti politici nazionalisti, tra cui molti futuri militanti fascisti.
Il fascismo si presentò come una terza via alternativa al capitalismo liberale e marxismo. Un movimento interclassista, con una visione totalitaria dello Stato e una concezione corporativista della società. Favorevole alla proprietà privata, contrario alla democrazia di massa, tanto da escludere e mettere al bando gli altri partiti, e contrapposto al socialismo e alle democrazie liberali. Fu nazionalista dal punto di vista della politica estera, della lingua, promuovendo l’eliminazione di molti vocaboli stranieri, e dell’economia, promuovendo una politica autarchica.
A Bitonto il fascismo aveva governato attraverso Lorenzo Achille, Serafino Santoro e Giovanni Battista Dragone, i podestà che avevano amministrato la città dopo la soppressione del consiglio comunale. Con la legge comunale e provinciale stabilita dal regime, infatti, il sindaco, rinominato appunto “podestà”, avvalendosi di delegati, assessori e del segretario del Fascio locale, organizzava i consigli comunali, secondo la concezione totalitaria che il fascismo aveva del Partito.
E proprio grazie al materiale trovato in quella che fu residenza del podestà Santoro (attuale Palazzo Antica Via Appia), abbiamo una preziosa testimonianza di quel periodo in città. Foto (come quella pubblicata a corredo dell’articolo), documenti e articoli di giornale furono infatti raccolti e pubblicati nel volume “Bitonto – Anni Trenta”, curato da Gaetano Brattoli e Alessandra Sgaramella.
Nel volume, come scrive Nicola Pice nella sua prefazione, c’è testimonianza della «spettacolarizzazione della vita politica» che «costituì la base e il presupposto delle strategie di governo, mirate a forgiare e a disciplinare il popolo italiano, nel rispetto della nuova ideologia e in consonanza con la retorica della persuasione».
C’è traccia, come scrive sempre Pice, della «”fabbrica del consenso”, per veicolare gli obiettivi politici del regime dentro il paese ed innestarli nella mente e nel cuore della popolazione». Una “fabbrica” fatta di rituali patriottici, frequenti commemorazioni ufficiali, celebrazioni storiche, rituali patriottici, raduni, ostentazione di atteggiamenti populistici, attenzione all’artigianato e al mondo contadino, dal momento che nella borghesia rurale il fascismo trovò terreno fertile, alle pratiche sportive e al mito della giovinezza.
Tutte cose che «avevano l’importante funzione di dare espressione e rappresentazione a questa “religione secolare” che fu il fascismo e alla sua liturgia cerimoniale» e a «alimentare continuamente la fede nel partito e nel duce».
Tra le varie manifestazioni di cui c’è testimonianza nel materiale raccolto nel volume, ci sono le foto e i proclami relativi alla “Festa dell’ulivo” e alla “Festa dell’Uva”, che servivano alla «unificazione dei ceti borghesi e delle masse contadine attorno a temi produttivistici, sebbene in forma mistificante».
È mostrata la vecchia sede del Fascio Giovanile di Combattimento, che dopo la guerra fu presa in gestione dal Partito Comunista e oggi ospita il Partito Democratico. Ci sono le immagini della consegna dell’oro per la patria. C’è testimonianza, rappresentata dalle foto degli assembramenti di cittadini, nell’edificio non più esistente della Casa del Fascio (accanto all’attuale ufficio anagrafe, alla base del Torrione, dove prima c’era stata la sede del Pnf), con cartelloni dai messaggi razzisti, volti a denigrare la popolazione autoctona e il Trattato di Ginevra che sanzionava l’Italia, delle manifestazioni a favore della campagna di Etiopia, «la più “popolare” delle guerre combattute dallo stato unitario italiano, quando si visse un momento di vera e propria nazionalizzazione delle masse: allora il mondo contadino in tutti i suoi strati sociali, soprattutto i più poveri, partecipò alla guerra con sincero entusiasmo, perché, in un momento in cui gli sbocchi emigratori erano chiusi e la fame di lavoro e di terre era particolarmente avvertita, la guerra africana rappresentava ancora una volta la speranza della terra».
Durante gli anni del regime fascista, Bitonto cambiò moltissimo. Fu inaugurato l’edificio che ospita sa scuola “Fornelli”, della scuola elementare di Mariotto, del Mercato Coperto in piazza XX Settembre (non più esistente), dei cimiteri di Palombaio e Mariotto, del mausoleo ai caduti della Grande Guerra, della ferrovia elettrica per Santo Spirito. Fu restaurata la Cattedrale e le fu dato l’odierno aspetto. Fu acquistato Palazzo Gentile che divenne sede del Consiglio Comunale (prima era a San Domenico). In quegli anni Bitonto perse la sua marina, Santo Spirito, passata a Bari per dar vita al progetto di Crollalanza di creare una grande Bari a forma di aquila, simbolo del regime fascista. Rientra in quegli anni anche la vicenda del monumento ai caduti della Prima Guerra Mondiale, realizzato negli anni ’20 dall’artista Filippo Cifariello e posto in piazza Plebiscito (oggi Marconi), poi sciolto quando servì come metallo per gli armamenti.