Nell’attacco al sistema dei partiti che ebbe luogo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, anche la televisione ebbe un ruolo da protagonista.
Furono molti, infatti, i programmi televisivi che, cavalcando un risentimento antipolitico ormai dilagante nell’opinione pubblica e spesso dando voce a forze politiche populiste e ai loro rappresentanti, furono ulteriore veicolo di quell’antipartitismo diffuso e imperante in Italia e non solo. Nuovi populismi trovarono ampio spazio in quel mezzo di comunicazione che non era certamente nuovo, ma che, con l’avvento delle tv commerciali, era diventato più accessibile.
Un fenomeno, infatti, che getta le sue radici in quel 1976 che portò la liberalizzazione delle frequenze radiofoniche e televisive. Nacquero miriadi di radio e televisioni private, dalla diffusione più o meno ampia, regionale o nazionale, che moltiplicarono i canali di comunicazione per nuovi protagonisti della politica italiana. Dalle tv commerciali nacquero molti rappresentanti del populismo degli anni a venire. Basti pensare a Silvio Berlusconi, che, nel ’94, dal suo impero mediatico, approdò in politica sfruttando la retorica dell’imprenditore di successo, del self-made man, che scende in campo per spirito di servizio verso il proprio paese, per rimediare alla cattiva gestione della politica dei partiti politici.
«Ho scelto di scendere in campo, e di occuparmi della cosa pubblica, perché non voglio vivere in un Paese illiberale governato da forze immature, e da uomini legati a doppio filo, a un passato politicamente ed economicamente fallimentare» sarà il suo discorso di presentazione nel ’94. Anche se, anche nel decennio precedente, il suo impero mediatico era stato al servizio del modello craxiano di leadership, che si contraddistinse anche per la sua efficacia anche in campo mediatico. Forte di un rapporto simbiotico con Berlusconi, Bettino Craxi si impegnò a diffondere, sulle reti televisive dell’imprenditore milanese l’immagine di un paese «in mutamento, votato all’arricchimento personale e al consumo vistoso», come scrive Rino Genovese in “Che cos’è il berlusconismo”.
Nacque, in sostanza, quel fenomeno che Giovanni Sartori definì “videopolitica”, notando come la televisione stesse cambiando il modo di fare politica, specialmente in un periodo in cui i partiti perdevano sempre più forza, legittimità e capacità di attrarre i consensi. Il politologo, partendo dall’analisi della società statunitense, notò come stesse favorendo la personalizzazione della politica anche in Europa e in Italia: «Non è il partito che fa eleggere il deputato o senatore, ma il candidato che fa scegliere il partito».
E notò anche come, allargando i costi della comunicazione politica, favorisse quei candidati che erano già in grado di assoldare confezionatori di discorsi, consiglieri, sondaggisti, pubblicitari e di pagare spazi televisivi (la crisi dei partiti politici e della loro capacità di sostenere costi crescenti, a causa di diminuzione dei militanti e, poi, dei finanziamenti, fece poi il resto, contribuendo alla crescita di fenomeni di corruzione).
«Mancando il potere del partito come entità a sé stante, come macchina organizzativa, come coagulante del voto popolare, quel che rimane e uno spazio aperto nel quale il potere del video e la video-politica hanno agio di dilagare senza imbattersi in contro-poteri» scrisse Sartori, evidenziando «lo scadere della politica a un livello di grettezza, di protezionismo localistico, e di localismo circoscrizionale, mai prima raggiunto».
Ma torniamo alla situazione prettamente italiana.
Diverse trasmissioni televisive di successo contribuirono a costruire e diffondere una retorica antipolitica che spiegava la crisi del sistema italiano, non come una crisi dello stato e della democrazia nata negli anni ’70 e diffusa in tutto l’Occidente, quale era realmente, ma con la disonestà dei politici e la voracità dei partiti che bloccavano il paese con le pratiche spartitorie. Spesso, attraverso il dileggio, minarono la legittimità della classe politica. Tra gli eletti bitontini oggetto di dileggio fu l’onorevole Giuseppe Rossiello, dopo la sua elezione nel ’96, quando fu ripreso da Striscia la Notizia, mentre era addormentato tra i banchi della Camera dei Deputati. Una situazione comprensibile data la lunghezza delle sedute parlamentari, in cui si affrontano tantissimi argomenti, ma che, per la vulgata antipolitica nel pieno della sua forza distruttiva, era la dimostrazione dell’inutilità e dell’inefficienza dei politici e delle assemblee parlamentari.
Se la videopolitica, come vedremo più in là, rappresentò un’occasione propizia specialmente nel centrodestra, con le apparizioni televisive berlusconiane, sarebbe un errore fermarsi lì e non vedere che coinvolse, in modo trasversale, ogni schieramento politico. Anche nel centro-sinistra, diversi personaggi, come Antonio Di Pietro o Nichi Vendola, ne faranno uso con un linguaggio unidirezionale e dai tratti talvolta populistici.
Come sarebbe anche un errore attribuire alle sole televisioni commerciali l’aver sdoganato narrazioni populiste di nuovi protagonisti della vita politica italiana. Sulla tv di stato vide i suoi esordi l’antipolitica di Beppe Grillo, che davanti alle telecamere di Fantastico 7, popolare trasmissione di intrattenimento andata in onda nell’86, pronunciò quello che ancora oggi rimane una delle sue più celebri battute satiriche contro la corruzione della politica, che causò il suo allontanamento dalla televisione di Stato. Parlando del viaggio in Cina dell’allora ministro socialista Martelli e del presidente del consiglio Craxi, il cui Partito Socialista Italiano rappresentava all’epoca il simbolo per eccellenza della politica corrotta, disse: «La cena in Cina… c’erano tutti i socialisti, con la delegazione, mangiavano… A un certo momento Martelli ha fatto una delle figure più terribili… Ha chiamato Craxi e ha detto: “Ma senti un po’, qua ce n’è un miliardo e son tutti socialisti?”. E Craxi ha detto: “Sì, perché?”. “Ma allora se son tutti socialisti, a chi rubano?».
Di Umberto Bossi non si può certo dire che nacque dalle televisioni, ma la sua antipolitica trovò spazio durante le trasmissioni di Gianfranco Funari, uno dei protagonisti di una stagione che, eliminando ogni tipo di mediazione politica, diede voce alla piazza, al risentimento antipolitico diffuso verso una classe politica vista unicamente come corrotta, responsabile di quel che, in Italia, non andava. Sentimento che aveva cominciato a diffondersi già dalla fine degli anni ’60.
Funari, che nelle sue trasmissioni, simpatizzò anche per le picconate di Cossiga, si caratterizzò per anatemi contro i politici, contro la sanità pubblica e i suoi disservizi, dando voce alla piazza e ai nuovi protagonisti del populismo, ed ergendosi a paladino degli indifesi contro la classe politica corrotta, spendacciona, incurante delle esigenze del popolo. Soprattutto nel periodo di Tangentopoli, quando si raggiunse l’apice della narrazione antipolitica e tutto il sistema dei partiti veniva visto come un monumento alla corruzione.
Funari fu il precursore del populismo in tv e di una televisione che sottopone i politici al giudizio diretto del pubblico.
Siamo alle origini del fenomeno del direttismo, ben prima di Grillo e della sua idealizzazione del web come strumento di partecipazione e trasparenza.
Grazie alla tv, nuovi populismi ebbero l’occasione di farsi largo nell’opinione pubblica, parlando direttamente alle viscere della popolazione, alle sue paure e ai suoi risentimenti. Con la televisione, Bossi e Berlusconi saliorono alla ribalta delle cronache politiche, saltando quell’ostacolo rappresentato dai partiti e dalla loro funzione di rappresentanza della società.
Ma il populismo in tv non fu certamente solo di destra. Anzi. Tutt’altro. Soprattutto nel pieno della stagione di Tangentopoli, anche giornalisti e conduttori televisivi che si collocavano a sinistra non furono certamente da meno, elogiando la videopolitica come uno strumento di trasparenza. La videopolitica, intesa come intreccio tra televisione, sollecitazione delle piazze e leaderismo carismatico, in Italia ha avuto anche i suoi rappresentanti a sinistra, ancora prima dell’avvento di Berlusconi.
Anche conduttori come, ad esempio, Michele Santoro, Corrado Augias, Gad Lerner e altri sostennero l’idea dell’inutilità della politica, soppiantata ormai, a parer loro, dalla videopolitica e dalla sua nuova capacità di fornire rappresentanza sociale, senza alcun bisogno di quella mediazione svolta da partitiche erano incapaci di utilizzare, nel modo giusto, il nuovo linguaggio che la tv imponeva. In quest’ottica, il conduttore, nuovo tribuno del popolo, porgendo il microfono al cittadino, gli forniva un canale di autorappresentazione.
«Solo parlando alle viscere e ai sentimenti, solo rappresentando il caos invece di analizzarlo, siamo riusciti a spezzare il patto consociativo dei partiti, cioè l’intesa criminale fondata sul furto generalizzato, che aveva stretto il paese in una morsa. Anche perché la videopolitica usa il linguaggio della comunicazione immediata, anche troppo, mentre il linguaggio della politica tradizionale non comunica più niente a nessuno» scrisse Corrado Augias sul quotidiano Repubblica il 30 dicembre 1992, mentre, un mese dopo, sul settimanale Panorama, Michele Santoro, sostenendo l’idea della tv come garante di trasparenza, così disse: «Io contesto che la gente per esprimersi debba passare attraverso il filtro rappresentativo di partiti e di organizzazioni. Perciò ho offerto il microfono alla gente. La mia piazza non è una massa indifferenziata ma dei cittadini con nome e cognome che esprimono la loro opinione. Con II Rosso e il Nero vorrei andare più avanti, creare la Piazza Italia usando tutti gli strumenti che la tecnologia mette a disposizione, test compreso. Se adoperato con prudenza, può rivelarsi prezioso per capire l’opinione del pubblico. Ritengo che la televisione possa aiutare a rendere trasparente la società. Che è la società dell’immagine e come tale non può prescindere dalla tivù. Per giunta, sono convinto che una sostanza senza capacità di comunicazione non è una buona sostanza. È su questo terreno che i nuovi leader si dovranno misurare. La videopolitica ha messo in naftalina i vecchi partiti, cambiando le regole del gioco».
Si può dire anzi, che la sinistra televisiva, senza volerlo, ha avuto un ruolo non indifferente nell’ascesa politica dell’odiato avversario Silvio Berlusconi, come sostenne Massimo D’Alema, sottolineando che quei toni non sarebbero stati di aiuto alla sinistra. Screditando quello che rimaneva dei partiti e teorizzando il ruolo della tv come alternativa alla mediazione politica, la sinistra televisiva ha creato quel vuoto che, poi, sarebbe stato colmato dal populismo berlusconiano.
Così scrisse, sul quotidiano “Il Giornale”, il giornalista e senatore Andrea Cangini, il 9 dicembre 2019: «In principio furono Gianfranco Funari, Michele Santoro e Gad Lerner. Fu quello il micidiale tridente catodico che per primo portò «la piazza» negli studi televisivi e mise «il popolo» sotto i riflettori, collocandolo stabilmente al centro della scena. Il popolo sembrò gradire. Stette al gioco, alzò i toni del risentimento, sfruttò con naturale disinvoltura la possibilità di dire finalmente la propria e con vivo entusiasmo colse l’opportunità di esibirsi in Tv. I tre antesignani dell’Apocalisse populista si assicurarono così un gigantesco potere di condizionamento della società e un indiscutibile successo professionale. A pagare il conto è stata la Politica. Maltrattata, vilipesa, stretta con rabbia in una tenaglia mediatica tra crimine e privilegio. Una Politica incerta, disorientata, alle prese con il sottile sospetto di essere davvero la sentina di tutti i peggiori vizi e la morta gora di ogni virtù così come veniva e viene raccontata. Una politica nuda, spogliata di colpo del proprio prestigio, degradata a causa di tutti i mali italiani».
Non solo. Diffondendo l’idea che i mali dell’Italia fossero da addebitare ai politici corrotti e non andando oltre la polemica antipartitocratica, si ostacolò ogni tentativo di interrogarsi sulle vere cause di quella che non era solo una crisi politica, ma una crisi dello stato, comune a tutto l’Occidente sin dagli anni ‘70.
E anche a sinistra, dove la tradizione partitica è sempre stata più forte, ci si accodò, con molta miopia, alla critica ai partiti politici, come sottolineò anche lo storico Leonardo Paggi, nel suo saggio “La strategia liberale della seconda repubblica. Dalla crisi del PCI alla formazione di una destra di governo”: «Ponendosi come i veri interpreti dell’opinione pubblica, i principali organi di stampa hanno sostenuto con forza crescente la linea di una riforma istituzionale che si è colorita di tratti sempre più apertamente plebiscitari nella misura in cui si è configurata come unica risposta possibile a una crisi irrimediabile del sistema dei partiti. Di qui una filosofia politica sempre più caratterizzata per l’esaltazione di una mitica democrazia diretta. I partiti sono accusati di essersi interposti tra la volontà degli elettori e le conseguenze istituzionali delle loro opzioni politiche. E insieme ai partiti è il Parlamento in quanto tale a essere trascinato sul banco degli accusati come istituzione che ostacola e scherma il rapporto diretto tra l’esecutivo e la massa degli elettori. Ancora di qui, inevitabilmente, un’accentuazione crescente del ruolo della leadership come chiave di volta del sistema democratico».