Tra i temi delle contestazioni di fine anni ’60 e inizio anni ’70, l’avversione all’imperialismo, l’anticolonialismo, il terzomondismo furono gli argomenti più centrali e ricorrenti. Lo abbiamo visto più volte negli appuntamenti precedenti di questa rubrica, quando abbiamo parlato delle manifestazioni di dissenso a sinistra, nel mondo cattolico e a destra. Da più parti ci furono movimenti che videro con favore i processi di decolonizzazione di tanti paesi in Africa, Asia, Sud America, isole del Pacifico e dell’Oceano Indiano che volevano liberarsi dal giogo coloniale. E lo fecero attraverso lotte che si inserirono nei delicati equilibri determinati dalla Guerra Fredda, sconvolgendoli. Talvolta in modo pacifico, senza spargimenti di sangue, altre volte a costo di innumerevoli vite umane.
La decolonizzazione politica moderna iniziò subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando l’India, nel 1947, a seguito di una vasta campagna di disobbedienza, ottenne l’indipendenza dal Regno Unito.
Le modalità che portarono alla crescita dei movimenti nazionalisti furono simili un po’ ovunque. Gli imperi europei usarono le colonie per sopravvivere alla crisi di fine anni ’20, sfruttando le risorse ed impoverendo la popolazione locale. Ciò, unito ad una voglia di ricompensa per gli sforzi bellici a fianco delle potenze coloniali, durante la Seconda Guerra Mondiale, contro le potenze dell’Asse, fece sorgere molti movimenti nazionalisti ed indipendentisti di varia estrazione politica (di ispirazione religiosa, liberali o comunisti), che approfittarono anche dello stato di debolezza in cui molti paesi europei, alle prese con la ricostruzione postbellica, si trovavano.
Le manifestazioni di consenso verso queste lotte di liberazione dalle potenze coloniali si diffusero in tutto l’Occidente, tra gli anni ’50 e gli anni ’70. Ma non tanto verso i vecchi imperialismi europei, ormai in declino, che stavano pian piano concedendo l’indipendenza ai loro possedimenti. Quanto soprattutto verso un altro imperialismo, in quel periodo (anni ’60), rampante, ma diverso e mascherato da lotta contro l’avanzata comunista: quello statunitense.
Un imperialismo che ebbe la sua più evidente espressione nella guerra del Vietnam. Una guerra che abbiamo visto attraverso documentari, libri. E tanti, tanti film. Interventisti (pochi in realtà) o critici verso l’intervento statunitense, ma tutti o quasi, paradossalmente visti dalla prospettiva statunitense, con gli occhi, dunque, dei vinti, nonostante spesso a raccontare la storia siano i vincitori.
Una guerra che, come abbiamo più volte visto, è stata al centro delle contestazioni del Sessantotto. Da più parti politiche si è, più volte, denunciato l’intervento statunitense. In tutto il mondo. In tutta Italia. E anche a Bitonto, dove, come vedremo tra poco, non mancarono manifestazioni di solidarietà al Vietnam. E non solo.
Ma andiamo con ordine, con un breve sunto su quel che portò ad uno dei più violenti conflitti della seconda metà del ‘900.
Con l’espressione “guerra del Vietnam” si tende spesso ad indicare solamente il conflitto che, tra gli anni ’60 e gli anni ’70, vide contrapporsi gli Stati Uniti e il Vietnam del Sud al Vietnam del Nord, aiutato, nella parte meridionale della penisola, dai guerriglieri vietcong.
Ma, per comprendere meglio l’intero contesto, occorre fare un passo indietro, fino gli anni della Seconda Guerra Mondiale. Sin dagli anni ’80 del XIX secolo, la zona (l’odierno Vietnam, più Laos e Cambogia) era stata un possedimento francese, un protettorato che, se pur governato formalmente da dinastie locali, era amministrato da Parigi. Il dominio francese durò per diversi decenni e, anche durante la Grande Guerra, si servì di reparti indocinesi per combattere i tedeschi. Ma, in quegli anni, la società indocinese stava cambiando notevolmente. Cominciò, sin dagli anni della Prima Guerra Mondiale, a formarsi, nelle città, tra le élite più istruite, un movimento che chiedeva l’indipendenza e la fine di un regime coloniale colpevole di sfruttare la popolazione locale e reprimere nel sangue le manifestazioni nazionaliste e indipendentiste. Tra i leader delle proteste, ci fu il futuro presidente nordvietnamita Ho Chi Minh.
Una situazione che durò fino all’invasione tedesca della Francia, nel 1940. I giapponesi, alleati della Germania nazista, ne approfittarono per prendere possesso della penisola.
Nella resistenza antigiapponese si distinse il movimento Viet Minh, di ideologia comunista, ma aperto a tutti i vietnamiti desiderosi di indipendenza, che approfittò anche della debolezza nipponica (gli alleati europei, Italia e Germania, erano capitolati ed era solo questione di tempo affinchè anche il Giappone si arrendesse) per scacciare l’invasore. Anche approfittando dell’aiuto dei francesi che erano interessati a riprendersi la loro colonia. Ma i nazionalisti vietnamiti non avevano intenzione di cacciare solo le forze di Tokyo, ma anche quelle di Parigi. E così, quando queste ultime cercarono, dopo la fine della guerra, di riappropriarsi dell’Indocina, iniziò una lunga guerra. I vietnamiti cercarono di ottenere l’aiuto statunitense, ma Truman, nel timore che la zona andasse in mano comunista, ignorò le richieste. La guerra, comunque, si concluse nel ’54, con la sconfitta francese e la nascita di due stati: il Vietnam del Nord, sotto la guida del comunista Ho Chi Minh, e il Vietnam del Sud, filoccidentale retto dal governo, dispotico e fantoccio degli Usa, di Ngo Dinh Diem. Soluzione che non soddisfò il Nord, che sognava una riunificazione del paese sotto il vessillo comunista. I vari tentativi di insurrezione, al Sud, e gli attacchi dell’esercito nordvietnamita, spinsero il presidente statunitense Kennedy ad inviare i primi consiglieri militari, in soccorso dei sudvietnamiti. Ma quando, nel ’63, le vittorie del Nord spinsero il Sud ad accettare un accordo di pace, gli Usa, per evitare l’avanzata comunista, spodestarono e fecero assassinare, con un golpe, il loro ex alleato Diem, ormai ritenuto debole. Rinforzarono, inoltre, l’intervento militare, con l’avvallo di Kennedy prima e, dopo il suo omicidio, del presidente Johnson. Dando inizio ad un nuovo conflitto che durerà altri 12 anni e che si concluderà con la sconfitta dell’esercito statunitense, sfinito dall’intensa attività dei guerriglieri, e la tanto agognata riunificazione del Vietnam sotto il governo comunista. Una guerra che provocò tantissime perdite da entrambi i fronti e che vide gli Stati Uniti macchiarsi anche di gravissimi crimini di guerra, come successe nel villaggio di My Lai, dove i militari americani si abbandonarono al massacro di cittadini inermi.
L’invasione statunitense provocò un fortissimo movimento di protesta in tutto il mondo. L’opposizione all’azione militare fu, anzi, una delle principali istanze dei sessantottini di ogni dove. E non solo a sinistra, dove la vicinanza a Mosca rendeva naturale schierarsi con i vietnamiti piuttosto che con gli americani. Anche nel mondo cattolico e nell’estrema destra ci furono rivendicazioni antimperialiste apertamente contrarie all’azione di Washington e al suo interventismo.
Le manifestazioni di protesta si diffusero già da metà anni ’60 in tutto l’occidente. Anche in Italia. Nel febbraio e marzo ’65 in tutta Italia il Partito Comunista Italiano organizzò manifestazioni contro la guerra in Vietnam. Iniziative che coinvolsero anche la città di Bitonto, che ospitò il 25 marzo di quell’anno, una manifestazione per il Vietnam, con la presenza del deputato comunista Mario Assennato. Ovviamente, Bari, sede universitaria ed importante centro culturale, ospitò molte manifestazioni contro la guerra, tra cui quella del 9 aprile 1967. Appuntamenti di cui, puntualmente, l’Unità dava notizia, a differenza di altri giornali, anche territorialmente più vicini, come, ad esempio, la Gazzetta del Mezzogiorno, che più volte, in articoli ed editoriali, si mostrò più vicina alle ragioni statunitensi, denunciando l’invasione del Nord comunista contro il Sud e tacciando di antiamericanismo i critici dell’intervento militare americano.
In occasione della campagna elettorale per le amministrative, l’8 giugno 1971 il comunista Antonio Romeo tornò a Bitonto per parlare di Vietnam.
Ma non ci fu solo la questione vietnamita ad infiammare il dibattito e ad innescare proteste. La volontà di Washington di impedire l’avanzata comunista si manifestò anche altrove. In particolare, in Sud America, dove, in ossequio alla Dottrina Monroe (supremazia statunitense nel continente americano e avversione ad ogni intromissione da parte di potenze estere), gli Usa intervennero, indirettamente, in Cile, aiutando il generale Augusto Pinochet nel suo golpe contro il governo socialista di Salvador Allende (11 settembre 1973).
Contro quel colpo di stato, il 10 novembre 1973, si tenne in piazza Cavour una manifestazione in favore della Resistenza cilena, organizzata da un comitato antifascista e antimperialista di Bari. Si sarebbe dovuta tenere, sotto forma di conferenza e dibattito, il giorno dopo, nella Sala degli Specchi, ma il sindaco socialista dell’epoca, l’appena eletto Domenico Larovere, non concesse l’uso di Palazzo Gentile. Manifestazione a cui non parteciparono Camera del Lavoro e Federazione dei Giovani Comunisti Italiani, smentendo le notizie sulla loro adesione e lamentando di non aver avuto alcun invito: «In merito ad una presunta adesione della Fgci di Bitonto ad una manifestazione sul Cile, organizzata da un gruppetto sedicente di sinistra, la Federazione Giovanile Comunista smentisce decisamente la notizia».