Dal prof. Francesco Brandi, Segretario del Circolo “L. Longo” Partito Democratico – Bitonto riceviamo e pubblichiamo:
Vorrei semplicemente contribuire, ed è forse un dovere per me, alla riflessione di questi giorni successivi alle elezioni politiche del 25 settembre.
Il risultato delle urne è composito e come sempre potrebbe favorire letture strumentali, a cui cercherò di non unirmi. Mi sembrano, però, utili i seguenti dati:
il dato sull’astensionismo (10% di elettori in meno del già ribassato dato del 2018);
il dato della maggioranza netta ottenuta dalla coalizione delle destre (al plurale perché le forze della coalizione vincente sono divise su tematiche cruciali, per esempio sull’economia);
il dato della sconfitta delle sinistre (al plurale perché anche le forze in coalizione col PD, nonché il M5S, sono nettamente divise su diversi temi cruciali, per esempio la politica estera);
il dato del posizionamento a sinistra del M5S;
il dato del ridimensionamento ulteriore del Partito Democratico, che dal 2018 ha perso un altro milione di voti;
il dato, per venire al nostro collegio, del voto aggregato delle preferenze di Abbaticchio (candidato all’uninominale per la nostra coalizione) con 7826 voti che sommano quelli del Partito Democratico (3607), quelli delle altre liste (585, 153, 666) con quelli “preferenza secca” dei suoi sostenitori (2815).
Per ciascuno di questi dati, e non sono gli unici, ci sarebbe da discutere. Provo a ragionare brevemente solo su alcuni.
Ma vorrei fare una premessa. Ci sono dei momenti in cui perdere le elezioni non solo è provvidenziale ma perfino necessario. Dipende dagli obiettivi.
In questi anni (pochi) di partecipazione attiva alla vita del Partito mi sono più volte reso conto, e spesso ho potuto anche dichiararlo, che non c’è chiarezza sul progetto PD. Le cause sono tante, ma l’effetto è che pian piano il pedigree dei democratici si sia rafforzato in chiave di una rappresentanza degli Enti Locali, il popolo degli amministratori, di buoni ed efficienti amministratori, ma divaricando sempre più lo iato con i problemi strategici del Paese Italia, che non rappresenta la somma dei comuni che lo attraversano. Esiste, è bene saperlo, un’enorme distanza tra Roma e i Comuni, Roma e le Regioni. Il rapporto tra Parlamento e territori, già sfibrato dalla propaganda antipolitica, dal pesante turn over imposto dall’autostrada delle elezioni socialmediatizzate, dal Porcellum e dal Rosatellum è arrivato al capolinea, per cui il radicamento territoriale, anche con buone referenze, non viene percepito come funzionale alla trasformazione politica dell’Italia, ma come una specie di lavoro amministrativo, alla stregua di quello di un dirigente comunale.
Per fronteggiare questo movimento di deriva il Partito non ha fatto abbastanza, anzi si è reso complice del suo definitivo disastro proponendo il Rosatellum e votando la diminuzione del numero dei Parlamentari. – Io me lo ricordo quel referendum. Molti erano favorevoli, anche tra quelli che oggi piangono la morte della rappresentanza -.
Mi sembra pertanto evidente che sussista una contraddizione insanabile tra la maggior risorsa del PD (il suo radicamento nei territori) e la tendenza della politica italiana (autoreferenzialità del Parlamento, cui il PD non ha saputo mettere un freno).
In un simile scenario, perdere le elezioni, attraversare il deserto del non governo, digiunare di potere per fermarsi a ripensare se stessi, prima di estinguersi del tutto, è provvidenziale e necessario.
La soluzione dei problemi del Partito Democratico, che a mio giudizio resta l’unico partito in grado potenzialmente di incidere nel cambiamento del Paese, non consiste nel portare a Roma gli amministratori, cosa che pure avrebbe una sua utilità, ma nel portare nei Comuni un po’ di Roma. Ovvero dare agibilità politica, decisionale, di rappresentanza ai circoli, non come bacino elettorale e di manovalanza più o meno volontaria, ma come luoghi di confronto, elaborazione, discussione e proposta programmatica ed elettorale. Il che significherebbe agganciare i candidati ai territori, e prima ancora dotare il Paese di una legge elettorale per la quale si viene eletti con le preferenze e su collegi più sostenibili, con conseguente ricalcolo del numero dei Parlamentari necessari a coprire i territori.
La nostra iniziativa non è mai mancata, ma è rimasta lettera morta, su un binario che non portava a Roma. Per dimostrarlo mi piacerebbe qui elencare l’attività politica del nostro circolo nel biennio 2020-2021. Mi limiterò a dire che ho contato 66 evidenze, Covid imperante.
Ma di questa attività, ben poco si ritrova nel PD romano. E questo è un enorme problema.
Se le cause dell’insuccesso non vanno cercate sui territori, a questo punto bisogna alzare lo sguardo.
A questo punto va cambiata la sostanza ideologica e con essa tutta la strategia del Partito. Non il Segretario soltanto, ma la strategia. Non si tratta di sostituire Letta con un avatar più bello, fotogenico, che stia su tik tok e che sia in grado di accumulare il consenso sui social media. Non basta nemmeno che sia donna.
Prima di un congresso per il ricambio dei dirigenti, deve esserci un congresso costituente che si interroghi:
Sulla posizione del Partito Democratico in materia di politiche economiche
Sulla posizione del Partito Democratico in politica estera
Sulla posizione del Partito Democratico sui diritti civili, sulla famiglia, sui costumi degli italiani
Sulla posizione del Partito Democratico in materia di immigrazione e politiche dell’accoglienza
Sulla posizione del Partito Democratico in materia di approvvigionamento energetico ed ecologia
Sulla posizione del Partito Democratico in materia di Lavoro
Sulla posizione del Partito Democratico in materia di Scuola
E l’elenco potrebbe continuare.
Non che su questi temi il PD non abbia provato a fare campagna elettorale. Ci ha provato.
Ma la semplice raccolta di temi dal calderone delle diverse iniziative di audit interno del partito, non poteva essere vincente. Perché su ciascun tema nel PD esistono almeno due posizioni diametralmente opposte e inconciliabili. E ciò rende impossibile fare proposte nette: si finisce con lo scegliere sempre la strada mediana, la proposta conservatrice.
Così è stato.
E qui secondo me risiede il nodo del problema. Che è lo stesso del 2018, cambiando attori.
Dinanzi ad una società aggredita dai problemi che parti di essa generano, la posizione di un partito socialista democratico riformista ecc ecc non può essere quella di conservare, ma di trasformare. Invece da noi nessuna proposta di trasformazione; piccole migliorie (non ius soli, ma ius culturae; non reddito universale per superare il RDC, ma reddito modificato, ovvero ridotto, per estinguerlo prima possibile; non lotta ai cambiamenti climatici, ma misure di adattamento, caute, giusto un po’, senza far male ai poteri forti). La risposta del popolo (perché la sinistra dovrebbe prendere i voti del popolo più che delle élite) è stata come nel 2018 questa:
Se devo votare una forza di sinistra che attua politiche conservatrici, a questo punto voto una forza di destra, che di conservatorismo se ne intende.
Perché accontentarsi delle imitazioni se si può avere l’originale?
Quel che il PD ha fatto, in più, lo ha fatto partendo da un pulpito scomodo, scomodissimo, che è quello di chi ha partecipato al Governo nel segmento finale di una legislatura traumatica, scaturita da elezioni in cui il progetto del PD non era stato riconosciuto valido se non da 6.000.000 di italiani (oggi ridottisi a 5); numeri rispettabili, ma ben lontani da costituire maggioranza per governare. Già dopo quelle elezioni urgeva un congresso programmatico (cosa che non fu purtroppo il convegno ‘Tutta un’altra storia. Gli anni 20 del 2000’, organizzato a Bologna e densissimo di contenuti su cui si sarebbe dovuta costruire l’azione del Pd negli anni a venire, e che invece venne risucchiato nel tritacarne dell’inseguimento delle correnti alle posizioni di potere gestito).
Per questi motivi, stare oggi a litigare in Puglia per qualche punto percentuale mi sembra fuori dal mondo ed essere ancora sganciati dal Paese reale, come piace dire in TV. Ovviamente il riflesso dell’orientamento elettorale del Paese è arrivato sin qui, scombussolando, ma neanche troppo, lo scenario elettorale del recentissimo 12 giugno.
Leggerei in chiave sostanzialmente confermativa la lieve crescita di consenso del PD locale nelle elezioni politiche rispetto alle amministrative (300 alla camera e 500 al senato sono un discreto valore, se si considera che le “civiche” di area democratica hanno probabilmente e comprensibilmente orientato i propri elettori – ma diversi sono andati verso i 5S e persino a destra – verso il voto secco ad Abbaticchio). Siamo ancora lontani, quindi, dalla copertura del campo di nostra competenza. E su questo dobbiamo fare molto a livello di circolo per aiutare i democratici fuori della Pescara ad osare l’unità.
Misterioso il dato del M5S, almeno a Bitonto, se si considera la liquidità della presenza territoriale e l’assenza alle elezioni amministrative di giugno. A noi piacerebbe poterci confrontare anche coi 5S, soprattutto alla luce della definitiva svolta a sinistra. Bisogna tentare.
A questo punto, se pure avessimo vinto l’uninominale di Bitonto, cosa che era alla nostra portata, e ci è sfuggita proprio per la mancanza di appeal della coalizione, non certo per la debolezza del candidato, che invece si è dimostrato, numeri alla mano, l’unico davvero competitivo in tutta la Regione, se avessimo vinto lo scontro diretto con gli altri candidati, questi sì, sospinti esclusivamente dal voto d’opinione – ma dove e come si forma questa opinione è il grosso scoglio – saremmo stati comunque qui a raccontare la sconfitta del PD e della sinistra alle elezioni. Potevamo essere l’eccezione, abbiamo preferito restare nella media.