“Forse la giovinezza è solo questo / perenne amare i sensi e non pentirsi”. L’attore – mirabile funambolo in bilico sul filo delle emozioni – si muove sul palco con passo ora sinuoso, ora scattante, saltabecca da un leggio all’altro, alle sue spalle scorrono immagini e scritte. C’è da raccontare la genesi di un genio multiforme, inquieto, lucente. La voce si dispiega nel breve cielo del teatro Traetta, sfoggiando tutte le intonazioni che dicono mimeticamente il canto di un’anima che si fa giorno per giorno. Eternamente innamorata del sogno e dello stupore. E nel racconto, piano e tempestoso, suadente e pensoso, non sai se a parlare, gioire, soffrire sia Pier Paolo Pasolini o Raffaello Fusaro (qui, nella splendida foto di Peppino Fioriello). O tutti e due insieme. Il cuore girovago al seguito delle destinazioni del papà gendarme, le prime scoperte letterarie, la vita assaporata nel succo più invisibile e profondo, la vertigine del sentimento più grande, le amicizie ferree e pure tristi. “Vivo sempre gettato nel futuro”, il monologo dedicato allo scrittore corsaro, polemista inesausto, regista antico e moderno al contempo, documentarista acuto, firmato da Nicola Pice, drammaturgo con un occhio, saggio, felicemente aduso alla insostituibile classicità, è un viaggio commovente e straordinario nel mondo pieno zeppo di sogni che fu l’abbraccio di infanzia e giovinezza dell’artista di Casarsa (ma pure di Bologna, Cremona, Roma), e la trina robusta è sapientemente intrecciata dei suoi stessi scritti. Lo sguardo severo del padre Carlo Alberto, il legame atemporale con la madre Susanna, nutrito da passeggiate infinite nella culla della natura – come dimenticare il profumo della pelliccia? – il fratello Guido, resistente bianco, assurdamente trucidato dai partigiani rossi, l’amore tutt’altro che inconfessato per la cugina, la tenera predilezione per Silvana: “l’amica totale, severa e giusta come Antigone, carica di ricordi e premonizioni come Cassandra”, l’adorazione per Giosuè Carducci, furente modello, la devozione per la Madonna, poi svanita con l’adolescenza, il miracolo delle lucciole che palpitavano lucore nel folto dei boschi, la passione catturante per il cuoio bitorzoluto che rimbalzava imprevedibile come un destino e il fascino di Tetaveleta, conio puerile e fantasioso tutto suo per descrivere l’incavo di retro al ginocchio di chi correva (parentesi mia: dallo stile di corso e tocco, a me Ppp sembrava un “7”, chi ci ha giocato insieme lo ha definito “quasi un medianaccio”, ma per me un poeta non può essere che un’ala). E ancora: le prime esperienze giornalistiche inseguendo giustizia e verità, le goliardiche combriccole universitarie non senza qualche delusione, le scelte politiche da vivere dentro prima che fuori, l’omosessualità che gioiosamente vien fuori, scuotendo via la scorza che flebilmente la mascherava. E così, a quell’età che il crepuscolare Guido Gozzano reputava l’incipit della vecchiezza, s’arresta il meraviglioso racconto e tira giù il sipario sul nostalgico candore con la cronaca raggelante degli ultimi respiri del gigante del pensiero, all’idroscalo di Ostia, ammazzato da chi non poteva mai capire che lui era ognora altrove, già altrove. Lo spettatore, incantato, rifiata e dona un grato applauso al mattatore Raffaello-Pier Paolo, non prima di aver forbito col dorso della mano dalla gota una calda lacrima, piena di rimpianti…