DI LUDOVICO DI TERLIZZI
Avevamo sedici anni quando R. ci mise in contatto. A pensarci ricordo ancora l’euforia che riempiva i nostri corpi adolescenziali e la musica ritmata che mi sparavo nelle orecchie.
Quando ti conobbi provai un po’ di invidia: eri alto, muscoloso e sorridevi sicuro di te, facendo sfoggio di un bel ciuffo folto e ribelle. Eravamo coetanei che frequentavano scuole differenti. Facemmo presto a diventare amici – è più facile quando si condividono gli stessi interessi – e ben presto diventammo inseparabili.
Stesso modo di vestire, stessa acconciatura, stesso modo di parlare. Non te l’ho mai detto ma esserti amico era uno spasso. Sapevi trasformare i momenti più bui in pretesti per fare qualcosa di nuovo e ci riuscivi sempre, e
quando non c’ era verso di consolare i tuoi interlocutori gli offrivi un biscotto al cioccolato, chissà perché giravi con una scatola nello zaino.
Di notte facevamo i pazzi. Ti ricordi quando rimanevamo svegli a girare per la città? Ti ricordi quando ci bastava scorazzare sulle nostre tavole sommersi dal buio, quando le strade erano sgombre dalle auto? Ti ricordi quando ci raccontavamo i nostri segreti e ci confessavamo le paure più profonde?
Ci perdemmo di vista. Tutto ad un tratto prendesti a frequentare cattive compagnie – chissà chi ti aveva iniziato – ed a fare strane cose.
La tua nuova ciurma vestiva rigorosamente abiti scuri, portava i capelli in un arrogante doppio taglio e puzzava di chimico da fare schifo. Che cosa pensò la tua famiglia, è mai possibile che nessuno si sia accorto del tuo cambiamento?
Ci vedemmo di rado e tutte le volte avevi appiccicato addosso uno strano odore. Mi guardavi con gli occhi stralunati, quando parlavamo eri assente e quel fisico tonico che tanto invidiavo si ridusse a pelle ed ossa.
Per questa compagnia avevi smesso di allenarti e ben presto avresti messo un punto anche alla scuola. Eravamo in terza superiore. Era un lunedì mattina quando sapemmo – almeno credo – non sono le notizie peggiori a
da arrivare sempre di lunedì?
A scuola non si parlò d’altro per tutte e cinque le ore; come trovare la concentrazione dopo una notizia del genere? Era primo pomeriggio quando Mimmo uccise il Piruccio con un colpo di pistola; a te, invece, è bastato il gancio destro. Avevi colpito a morte un uomo molto più grande di te per una cosa da niente e lo avevi fatto con le stesso destro che utilizzavi per colpirmi amichevolmente il braccio.
Non ci siamo più rivisti dopo il tuo arresto e forse, è stato meglio così. Quando il procuratore sancì la pena e la tua faccia si ritrovò su tutti i giornali della città pensai di chiamarti. Volevo sentirlo dalla tua bocca perché non potevo credere che il mio amico – lo stesso che ci offriva le gocciole per tirarci su di morale – aveva commesso un simile gesto.
Erano anni che non ti pensavo. Eri finito – dopo la galera – nel mio oblio, fin quando non ti ho rivisto in Mimmo, i suoi occhi dentro ai tuoi.
Tu, D. sei la prova dell’amore mancato. Sei l’esempio perfetto di tutti quei ragazzi a cui l’amore è stato dato forse frettolosamente forse distrattamente e che, va detto, hanno preso più o meno consapevolmente, una brutta strada; che qualcuno, a differenza di Micciariella, per la strada si perde per davvero.