Il tratto tenue del pennello lieve di fanciulla, poi donna dai confini d’eleganza e stile.
L’arte che s’apprende con umiltà -e s’ama con ardore- forma e costruisce.
Al di là dell’opera pittorica e delle scuole, si fa coerente indirizzo d’una linearità armonica e di un taglio che d’artistico ha tutto: dal sorriso sinuoso al dire raffinato, allo sguardo profondo e bello, bello sempre.
Poi, ecco l’opera.
E i maestri.
I maestri di Tina Rucci (è di lei che parliamo: dei quadri e dei lavori di questa gentildonna bitontina) sono stati essenzialmente tre: Saverio Raimondi -morto nel 1951, tra i principali insegnanti presso la celebre Scuola di Disegno voluta a Bitonto da Francesco Spinelli, su ispirazione di Vincenzo Rogadeo-, Enedina Zambrini Pinti -a Firenze, a sua volta l’ultima allieva vivente del macchiaiolo Giovanni Fattori– e Pietro Annigoni -grande ritrattista e talvolta anche discusso artista novecentesco-.
Tina Rucci, innamorata in egual maniera della sua Palombaio e del mare del Salento, erede della lunga tradizione artistica della città, ha esposto i suoi fiori, i suoi vicoli, gli archi, i suoni, i corpi, i cavalli al vento, il rosso come sfondo, i nudi, le donne e gli uomini, gli spazi reconditi del centro storico di Bitonto (“Così ho amato la mia terra”, il titolo della rassegna, non a caso).
Lo ha fatto (9-28 dicembre), presso il Museo Archeologico-Fondazione De Palo-Ungaro.
Una rassegna che, con presentazione al vernissage di Nicola Pice e momento introduttivo e musical-letterario a cura di Rossella Giugliano e Vincenzo Mastropirro, ha così inteso rendere il giusto omaggio a questa delicata biografia sempre in esercizio e ricerca d’arte.
Un’esperienza di studio e lavoro pienamente inserita, come si è visto, nella temperie del ‘900. Del resto, ai momenti più interessanti del secolo la Rucci è stata indissolubilmente legata e con quelli si è formata. Persino dall’età verde del liceo artistico, frequentato proprio nella Firenze dei grandi nomi, delle riviste, dei centri culturali che hanno fatto non solo del capoluogo toscano, ma di tutta l’Italia, già da inizio secolo, il cantiere delle avanguardie.
Non solo Parigi, dunque.
E non solo Futurismo e rottura: anche la Metafisica, non meno “avanguardia” delle altre, è italiana.
Ma la Rucci, legata a quell’Annigoni anti-avanguardistico, oscilla tra richiamo alle ansie movimentiste (addirittura con chiari richiami agli antichi maestri impressionisti) ed echi ritrattistici e paesaggistici che fecero grande l’artista di nascita milanese ma di vita e formazione fiorentina.
E così, scrive Nicola Pice nella brochure prodotta per l’evento, “nei quadri della Rucci il soggetto è solo un pretesto per creare una visione altamente evocativa, capace di suscitare toccanti emozioni, con i colori accesi, spesso accostati per ricercare l’intensità dei contrasti cromatici”.
Ancora: “Il colore si dispone entro un volume o entro una spazialità e si traduce in immagini suggestive pervase da una profonda malinconia o da un tono evocativo e trasognante”.
Il sogno, questo presente nella pittura della Rucci.
Una dimensione che, attraverso l’onirico mondo di una favola magari anche quasi inquietante, al tocco di bimba bianca ritratta di spalle, dice alla sua famiglia, alla sua città, alla sua comunità, di quale e quanto amore siano stati solcati i suoi passi.
Un passo bello e antico.
Un colore che giunge e ricongiunge: dalla vita, alla vita.