Al centro di tutto ci sono quei famosissimi cento passi. Davvero tante cose. La distanza che separava, a Cinisi, non lontano da Palermo, la casa della famiglia Impastato a quella del boss del Paese e non solo, il terribile Gaetano Badalamenti.
Una delle chiavi di volta, dei grimaldelli, per iniziare a non sotterrare più la testa nel cemento davanti alla criminalità mafiosa e iniziarne una lunga lotta senza confini.
Un modo per andare oltre quei cento passi, e imparare a farne altri 100, 1000, 10mila a testa alta e schiena dritta.
Già, “oltre i centro passi”, allora. Come il titolo del terzo e ultimo libro a firma di Giovanni Impastato, fratello più piccolo di Giuseppe, vittima di mafia il 9 maggio 1978, e ieri pomeriggio a Bitonto in una galleria De Vanna piena zeppa di gente tra appassionati, curiosi, giornalisti, docenti e, per fortuna, tante scolaresche. In un evento organizzato e fortemente voluto dal Centro studi “Sapere aude” (presidente Michele Coletti) per il primo appuntamento dell’anno per la rassegna “Nel Diritto con l’Autore – gli aperitivi giuridici del Centro Studi Sapere Aude”. Insieme all’instancabile Gianluca Rossiello della Libreria del teatro.
Quella terribile storia in quel Comune siciliano ormai la conosciamo tutti. La famiglia Impastato era una famiglia mafiosa. Lo zio, Cesare Manzella, capo boss dell’epoca e traghettatore verso la mafia urbana degli anni ’60 e ’70. Il papà, il capofamiglia, Luigi, non influentissimo ma amico e complice di Badalamenti, “ma che non ci ha mai fatto mancare nulla” ha subito precisato Giovanni, intervistato dagli avvocati Francesco Ruggiero e Giovanni Brindicci.
In casa, però, c’era qualcuno che la Mafia proprio non la digeriva, e che la considerava una montagna di merda. Il figlio Giuseppe, allora. Che in tutti i modi possibili, anche con una radio attivissima, lo inizia a sventolare ai quattro venti senza infingimenti. E siccome la sua lotta era sempre più serrata e non nel vuoto, si è pensato bene di farlo tacere per sempre il 9 maggio 1978. Ma soltanto parecchi anni dopo, e al termine di numerosi depistaggi, si è capito che a ucciderlo è stata la mano neanche tanto occulta di Cosa Nostra. Con tanto di precisazione per nulla banale: “Tutti coloro che hanno cercato di depistare le indagini – ha ragionato l’ospite della serata – hanno fatto carriera, mentre quelli che hanno parlato di Mafia sono stati ammazzati tutti”.
E non è la prima volta che sentiamo parlare di questo strano fenomeno. Vi dice niente la vergognosa pagina di storia chiamata Enzo Tortora?
Per fortuna, però, la voce di Giuseppe non si è spenta. Ha continuato a riecheggiare continuamente grazie alla famiglia (“mia madre Felicia è stata fondamentale sia in vita che dopo la morte di mio fratello”) e a tutte quelle pietre d’inciampo che vanno oltre i cento passi. Le belle frasi di Peppino. I suoi amici. Chi lo ha conosciuto. Tutti gli eroi morti anni dopo. “Casa Memoria” il luogo che più di tutti testimonia la lotta alla Mafia di Giuseppe Impastato, e che ogni giorno accoglie giovani e studenti appassionati della e dalla vicenda di quel ragazzo morto a soli 30 anni.
Il libro, però, consente anche di fare una riflessione sulla Cosa nostra di oggi. Passata dalla strategia stragista portata avanti dal Capo dei capi Salvatore Riina a quella della sommersione di metà anni ’90 condotta dal suo braccio destro Bernardo Provenzano. Ora è “criminalità economica non a caso presente più al Nord che al sud, e che ha come teste di ponte imprenditori bravissimi nello strappare appalti. La manovalanza della nuova mafia adesso è la borghesia”. Impastato dixit. Che ha aggiunto come “la mafia non è antistato, altrimenti sarebbe già stata sconfitta come avvenuto con le Brigate rosse. È dentro lo Stato, fa accordi con lo Stato, e a volte è proprio lo Stato stesso. Ha condizionato la storia politica del Paese dall’Unità d’Italia a oggi e ha avuto almeno quattro presidenti del Consiglio collusi o vicini”.