Maria Teresa Selvetti aveva capelli dipinti da un sole malinconico ed era alta alta come quelle persone che sembrano appartenere più al cielo che alla terra.
Scandiva la sua vita con versi sinceri e dolenti – il suo autentico poetare rimava troppo con un’atroce solitudine? – e attraversava la città con incedere silenzioso e austero.
E, nonostante fosse marchigiana d’origine, di Bitonto si era innamorata al punto da cantarne il fascino arcano e le bellezze antiche nelle sue poesie. Aveva un piccolo, ma umanissimo rammarico.
Pur contando innumeri, schietti estimatori – Maria (“ora sono sicura che starà sorridendo e sarà felice“), Mariella, Amelia, Vanna, Michele, Nicola, vado a memoria e quindi mi scuso con chi ho dimenticato – temeva di non essere presa nella giusta considerazione da una comunità che, è vero, spesso coniuga al consueto torpore persino una certa, ingiustificata sicumera.
Donde scaturisce una gelida indifferenza che uccide.
Il destino crudele e baro, poi, ha per giunta voluto che morisse lontano dalle mura bitontine cosicché della sua scomparsa non ci fosse traccia, neppure d’un manifesto funebre, se non qualche messaggio privato e d’affettuosa tristezza pieno degli amici che dicevamo.
Ogni volta che si spegne la voce di un poeta un vento d’autunno soffia nel cuore.
Ora, Maria Teresa sarà lassù e finalmente, fra coltri di zuccherose nuvole, potrà prendere fra le mani le minuscole fragili mani della madre e potrà sussurrarle quelle parole che non le aveva mai detto.
Forse, proviamo a pensare, sarà un semplice “ti amo”.
Già, tutto quello che, quando non lo svendiamo per effimere e mendaci conquiste, non abbiamo più il coraggio di dire, combattuti fra una sospettosa sfiducia negli altri ed un vuoto vertiginoso di sentimenti.
E la città, la città quando le dirà quel che meritava di sentirsi dire, la cara Maria Teresa?