Per decenni è stato la casa di centinaia di neonati indesiderati, abbandonati. Ancora oggi conserva ancora tracce dei piccoli che hanno vissuto in quel complesso in via Amendola a Bari, chiuso ormai da decenni. Parliamo dell’ex brefotrofio di Bari, la cui storia è stata riscoperta da Alessandro Piva nel docufilm “Fratelli di Culla”, presentato ieri nel Multicinema Galleria di Bari, per la 16ª edizione del Bif&st.
Da dove nasce l’idea di raccontare questa storia? Che ruolo ha avuto nella scelta del tema la vicinanza dell’ex brefotrofio alla tua casa di famiglia? È stata determinante? Ha reso la ricerca, in qualche modo, più personale?
Quella enorme struttura di via Amendola, con una pineta che la ammanta di un misterioso fascino, sorge a pochi passi dalla mia casa di famiglia qui a Bari: una curiosa coincidenza che mi ha permesso di seguire involontariamente il suo degrado negli anni. La curiosità per il passato di un luogo che evidentemente aveva interrotto la sua attività originaria si è unita alla scoperta degli appelli di bambini dell’epoca, ora impegnati nella disperata ricerca delle loro origini. Dopo aver intervistato tanti testimoni passati per quelle camerate, sia le operatrici e le assistenti sociali, sia le persone ospitate, sento di aver aggiunto un tassello importante a un pezzo di storia della mia città e del nostro Paese. Dunque sì, posso dire di aver sentito intrecciarsi il mio personale ricordo di quell’edificio, che ha fatto da sfondo alla mia quotidianità giovanile, con una storia ben più grande.
Nel film ci sono storie di chi ha trovato pace con il proprio passato e ha trasformato la ricerca delle origini in un atto di gratitudine. È stato difficile ricostruire storie personali di abbandono e trovare un equilibrio tra le luci e le ombre di questa vicenda?
Certamente è stato faticoso: ciascuno degli intervistati ha una personale missione. Molti di loro hanno fatto pace con il passato e con la consapevolezza dell’adozione, ma tanti hanno ancora ardente il fuoco della ricerca, interrogativi e speranze. Per cui, posso dire che non c’è davvero il raggiungimento di un equilibrio, anzi, probabilmente è proprio la rottura dell’equilibrio che mi ha spinto a raccontare una storia che la morale perbenista del secolo scorso aveva voluto coprire con un “equilibrio apparente”, un compromesso sociale tra abbandono familiare e cure statali.
Hai trovato in qualche caso resistenze o ostilità ad affrontare storie che, trattandosi di persone non riconosciute dai genitori, possono celare traumi irrisolti?
Talvolta è stato chiesto l’anonimato, altre volte c’è stata estrema disponibilità. Ma tutte le storie hanno in comune il desiderio di conferma che la propria nascita sia stato frutto di un atto d’amore e il terrore di scoprire di essere stati abbandonati volontariamente dalle proprie mamme.
Che tipo di rapporto si è instaurato con gli ex ospiti e le operatrici? Hai trovato una visione comune o esperienze molto diverse tra loro?
Ciascuno ha naturalmente una propria peculiarità, un dettaglio che rende la propria storia unica, ma posso dire di aver trovato altrettanti punti comuni, a cominciare dalla modalità in cui hanno preso coscienza della propria adozione: potremmo individuare due macro gruppi, tra chi lo ha sempre saputo e chi lo ha scoperto in età adulta, per circostanze talvolta casuali. Un altro aspetto comune alle varie storie è la motivazione che ha spinto migliaia di mamme a distaccarsi dal proprio neonato, dettata dalla morale di quegli anni, che non tollerava la maternità fuori dal matrimonio.
Il docufilm non si concentra solo sul passato, ma anche sulle difficoltà burocratiche odierne per chi cerca di ricostruire la propria storia. Quanto è cambiato il sistema di accoglienza o assistenza in Italia e quali ostacoli ancora esistono?
Il sistema burocratico è molto complesso. Si parla, all’interno del documentario, della cosiddetta legge dei cent’anni, una norma che tutela l’anonimato della madre biologica che non riconosca il proprio figlio, fino al compimento del centesimo anno dalla nascita del bambino: un implicito veto alla possibilità di riabbracciare un genitore ancora in vita, ora in fase di aggiornamento, sulla base delle nuove tendenze europee in materia.
Cosa lega “Fratelli di Culla” ai tuoi precedenti lavori?
Nel mio percorso artistico questo è un ulteriore tentativo di raccontare la società italiana, al contempo un’occasione per me di approfondimento emotivo su storie umane molto toccanti. Nei miei lavori documentaristici mi è già successo di rincorrere storie importanti – cioè che riguardano una moltitudine di persone e costituiscono quindi un pezzo di storia del nostro Paese – ma allo stesso tempo poco conosciute. Spontaneo accostare questo nuovo progetto a “Pasta Nera”, il mio documentario che racconta le iniziative di assistenza all’infanzia in difficoltà nel dopoguerra: centomila bambini del Sud più svantaggiato ospitati da famiglie del Centro Nord. Nel caso di “Fratelli di Culla” parliamo dell’assistenza di Stato all’infanzia non riconosciuta, ma ecco, la vocazione è la stessa: documentare un fenomeno che ha riguardato direttamente o indirettamente milioni di persone, di cui in pochi hanno un’idea precisa.
Cosa vorresti che rimanga al pubblico dopo la visione del documentario?
Spero che questo film sia capace non solo di emozionare, ma anche di far comprendere alcuni dei fenomeni sociali del nostro passato recente, con tutte le nostre contraddizioni: questi istituti erano sorti anche perché c’era chi considerava scandalosa una gravidanza fuori dal matrimonio. “Cosa direbbero i vicini di casa?” era una preoccupazione valida a cacciare di casa la propria figlia. Ad ascoltare oggi i racconti dei nostri protagonisti, sembrerebbe medioevo, invece parliamo di vicende di appena cinquant’anni fa: prendere coscienza delle conquiste di progresso civile che siamo riusciti a conseguire è un messaggio che spero resti impresso a chiunque incrocerà questo mio lavoro.