Pietrou
ha 15 anni. Capelli a spazzola e sorriso spento. Denti rotti, quei pochi che
ha, e una grande forza nelle braccia. È autistico, ride quasi sempre ma poi,
all’improvviso, si lascia andare a una rabbia difficilmente controllabile,
certe volte pericolosa.
“Fermateli abbracciandoli da dietro,
mai stando loro difronte. Potrebbe essere pericoloso, in caso di crisi
acuta” – ci dicono, prima di entrare in una delle tante scuole per
bambini disabili di Tirana.
Le
classi danno su un lungo corridoio senza illuminazione. Si sente un leggero
sentore di umidità, percepibile quasi subito anche sulla pelle. Le strutture,
fortunatamente non tutte, non brillano per igiene. Alcune risultano cupe e
scarne. Sono le stesse che erano utilizzate durante la dittatura comunista.
Fredde, riscaldate, però, da un grande calore umano.
Quello
di Pietrou e dei suoi compagni. Leo, 13 anni, autistico, un passato terribile
di violenze subite, perdita del padre per incidente di auto e madre vittima
delle infernali trappole della dipendenza dall’alcol.
Sonya,
25 anni, affetta da una grave forma di disabilità mentale. Veste un pigiama a
pois azzurro, strappato all’altezza della spalla. Gocce di saliva agli angoli
della bocca sempre chiusa e silenziosa. Una donna, nel centro, si prende cura
di lei da quando i genitori l’hanno abbandonata, dopo aver distrutto la sua
vita a suon di violenze inumane.
Angeli
a servizio di altri angeli. Angeli che, sotto la dittatura comunista, hanno
perso le ali. “Prima della
democrazia, loro erano invisibili. Non esistevano per le famiglie,
innanzitutto, e poi nemmeno la dittatura. Hanno costruito questi ghetti con
l’intento di escluderli dalla società, perchè inutili, di troppo”–
spiega il direttore della struttura.
“Dal ’91 in poi, i primi segnali del
cambiamento. Finanziamenti statali e presenza nella progettualitá normativa
dello Stato. Resta il problema dei modelli di cura, cultura e assistenza. Lì,
l’impronta della legge sovietica rimane, purtroppo”.
Prima
del portone che dà sull’uscita nel giardino c’è una porta socchiusa. Dentro,
c’è Pietrou. Sta rifinendo un modellino in legno dell’Albania. Ci sono i nomi
di tutte le città. Si volta, un sorriso e la sua mano che lo porge come dono.
Hanno detto che Petrou, oltre a essere un ragazzino malato, emarginato,
dimenticato dal suo Paese e dalla sua famiglia, è anche un tipo violento,
bisogna stare attenti. Nessuno, però, ha detto che ha una dolcezza immensa nel
cuore.