Descrivere in poche parole un’esperienza totalizzante
come quella di un cinefilo che partecipa per la prima volta alla Mostra del cinema di Venezia non è impresa semplice.
Bisognerebbe anzitutto riuscire a tradurre in parole lasindrome di Stendhal che coglie
qualsiasi animo sensibile che giunga – che sia la prima o la centesima volta –
a Venezia.
Dettagliarla adeguatamente, riempendola dei propri,
personalissimi significati. Poi bisognerebbe procedere allo stesso modo per la
Mostra, un tempio sacro ineffabile, colmo di tesori e reliquie, nel quale si
percepisce, sin dal primo momento, un’atmosfera surreale, magica.
Talmente intensa, per chi ne varca le sale per la prima
volta, da risultare soverchiante. Bisognerebbe spiegare come questa energia, densa, palpabile,
disorientante, confluisce poi in quel
grande cesto di vissuti audiovisivi che ogni credente (chi appunto crede
nella sacralità della settima arte) porta
con sé al tempio.
Bisognerebbe dire, tra le altre cose, come i film si
infilano nelle ceste, in quei serbatoi privati eppure così comuni, universali
in cui sono contenuti milioni e milioni di immagini e innamoramenti.
Come balzano spavaldi nelle nostre teche emotive o
filtrano leggeri ma luminosi negli spiragli di cuore che lasciamo aperti per
loro.
Per fiorire in tutto il loro splendore o morirvi, in
attesa, forse un giorno, chissà, di una seconda possibilità.
Bisognerebbe fare almeno un cenno alla gioia che viene
dalla condivisione delle passioni, alle calde serate di un’estate morente tra
un panino tardivo e due chiacchiere d’abbondante contorno.
Sul cinema e sulla vita, s’intende.
All’odore della Sala Grande, alle grandi stelle di Hollywood e ai fotografi impazziti,
alle lacrime trattenute a stento per “La
La Land” e quel teen movie islandese così delicato, all’euforia per la
bella spy Story di Kim Jee Woon, al
classico dell’horror di mezzanotte con Refne Argento insieme, agli alieni così
umani di “Arrival”, alla simpatia
(etimologicamente parlando) per le lotte sociali dei braccianti steinbeckiani
di James Franco.
E, infine, la scrittura, a suggellare il tutto.
Quel tentativo sempre così manchevole ed incompleto di
imbalsamare, di immobilizzare il cinema.
Che – immagine in movimento – continua per fortuna a
sfuggirci e a sorriderci da lontano.
Invitandoci a tornare nel suo regno, a vagare per le
sue lande sterminate, ad amarlo come fosse sempre la prima volta.