Si potrebbe
parlare delle bellezze paesaggistiche, dei villaggi silenziosi di montagna, del
silenzio di certe case, rotto solo dalla voce dei bambini che, scalzi, con
indosso giacche jeans di taglia più grande, corrono liberi al tramonto.
Si potrebbe
parlare dei volti dei kosovari e delle loro rughe profonde, degli sguardi
spenti e del vino forte, delle taverne semplici e piene di fumo. Della carne,
del formaggio fresco o del baklava, dolcissimo dolce al miele che, un po’
dappertutto nei Balcani, ristora chi cammina lungo quei territori, seguendo
l’istinto, la voce degli altri viaggiatori, le scie che il sole traccia nel
cielo.
Oppure, si
potrebbe descrivere il fascino e il mistero delle moschee. In Kosovo, ce ne
sono dappertutto: sui fiumi, nelle valli, in centro città, a ridosso delle
chiese cattoliche o ortodosse, vicino alle scuole, ai supermercati e ai fast
food.
Si potrebbe
parlare dell’isolamento di uno stato non ancora riconosciuto all’unanimità
dalla comunità internazionale, in cui si muovono tutt’oggi alcune pedine della
scacchiera di una guerra fredda mai finita.
O di quanti,
in Albania, quando sentono che stai partendo per il Kosovo, ti ricordano di
portarti dietro il passaporto, nonostante “Il
Kosovo è parte dell’Albania. Prova a chiedere anche lì, ai kosovari, e vedrai
che ti risponderanno che sono albanesi”.
Noi, ai
kosovari, lo abbiamo chiesto. E molti di loro non si sentono affatto albanesi.
Nonostante le proteste per le ingerenze statunitensi – a Pristina c’è Bill
Clinton boulevard, una strada che termina con casermoni popolari e una statua
dell’ex presidente degli Stati Uniti – e le difficoltà di vivere in una nazione
grande quanto un distretto o una regione, in alcune zone controllata da
eserciti stranieri (a Peja, su un ponte, abbiamo intravisto pattuglie di
carabinieri italiani in servizio).
I kosovari
rivendicano piuttosto una identità con spirito talvolta deciso talvolta
rassegnato, come se la loro sorte fosse sempre collegata agli umori di un
destino incontrollabile. Si potrebbe riassumere con queste immagini lo spirito
della loro terra.
E invece,
forse, ancora una volta, la cosa migliore da fare è raccontare la storia delle
persone comuni. Quelle che ti fermano per strada e ti invitano a scattare
fotografie con dolce familiarità. Le persone che, specie nei quartieri
popolari, seguono i tuoi movimenti restando seduti sui loro sgabelli rotti.
Fanno paura, ma poi sorridono.
La storia
dei ragazzi che ti offrono grappa di mele alle undici del mattino e ti parlano
delle antiche case kosovare, teatro di una quotidianità domestica morbida e
avvolgente, che rivive nei loro sorrisi.
Forse, la
cosa migliore da fare, è raccontare del mulino sul fiume di Prizren, con le
gocce che, al sole, se, brano diamanti pendenti, delle carni sanguine appese in
vetrina. Dei bambini che, all’uscita della scuola, al mattino, fanno colazioni
improbabili con torte rustiche alla carne, o agli spinaci, o al formaggio, o ai
legumi.
O delle
prostitute che, a Pristina, cercando di sedurti con parole ammalianti e corpi
perfetti, provano a intrappolarti nella rete dell’estorsione del mercato del
sesso. O degli imam che ti guardano e, senza un motivo apparente, che tuttora
non riusciamo a capire, ti cacciano in malo modo dalla loro moschea.
Ma un motivo
ce l’avranno avuto senz’altro, ecco perché non hai protestato. Ecco perché,
nonostante tutto, sei uscito dalla Moschea e hai ripreso il viaggio, sapendo
che, presto, sarai da qualche altra parte, ma sempre col Kosovo ben impresso
nella mente e nelle nostalgie più dolci.
E noi tutto
questo lo sappiamo. Presto, infatti, saremo altrove. A est, dove l’Albania si
fa rustica e orientale, e si tinge delle tinte rosse di un comunismo da tutti
maledetto, ma sempre, in un certo senso, “duro a morire”.
E poi a sud,
nella terra del silenzio, dove il mare in inverno è il volto della pace, calmo
e freddo. Dove le terre sono piene di alberi di ulivo e il vino è ricco di
sapori fruttati. Dove Corfù è a un’ora di navigazione.
Dove il
paesaggio cambia e le persone hanno culture diverse, ideali e valori via via
differenti. Dove la diversità dei popoli muore solo nella loro comune
appartenenza ai Balcani.