di Emanuele Di Prato
“Il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me” (Kant)
Nonostante avessi letto molti racconti fantasy, non ho mai trovato, spulciando tra pagine, note e descrizioni in prefazione o postfazione o saggi, un regno dove non esista legge morale o quantomeno la sua flebile e latente presenza. I re e le regine di questi mondi immaginifici, dominati da buoni o cattivi o da soli buoni o da soli cattivi, sono coloro dimorano in alto nella propria rocca o stanno rinchiusi nei loro sontuosi palazzi, disconoscendo il reale peso dei tributi loro corrisposti e ancor più quello della sofferenza del proprio popolo. Ma la politica, se così può sembrare, non è oggetto di questo racconto. Pasolini ci aveva già avvertito con i suoi ‘ragazzi di vita’. Aveva forse capito più di tutti che la legge morale non è semplicemente dentro di noi, è più a fondo nella coscienza, radicata negli abissi del male, nella miseria, nell’istinto del leone che preda la gazzella e negli altri animali che fuggono terrorizzati senza curarsi di chi è già destinato a vivere mutilato nel dolore fisico e mentale o a morire atrocemente. Non vi parlo della mantide che uccide l’amato dopo l’amplesso o dell’Inferno di Dante e del suo viaggio in un mondo immaginario che è frutto di una fantasia orientata alla realtà o delle immagini a cui siamo abituati in Breaking Bad o in Gomorra. Vi parlo di qualcosa che somiglia ai suoni irreali e astrusi di Relaxin’ at Camarillo di Charlie Parker; di un racconto scritto da chi ha vissuto un mondo dimenticato ma che esiste ancora e continuerà a esserci come un’Atlantide viva o una Troia sotterrata ma funzionante; di chi ha imparato a capire che il cielo stellato sopra di noi non è espressione del culto della bellezza irraggiungibile o il luogo della detenzione delle leggi divine ma la distanza dalla legge morale, genesi di quell’enorme separazione che alberga tra i nostri cuori, tra noi e dio e chi lo ha immaginato come il vittorioso simbolo di sacrificio o eroe e condottiero trionfante nella leggendaria e rovinosa caduta di angeli e demoni. Quel mondo oscuro non può essere attraversato dalla lanterna positivista della società dabbene ma dalle penombre di una decadente umanità, consapevole vessillo flebile e dimenticato di antiche glorie celebrate dalla memoria storica del mito e dei classici. Ghiaccio o limone è una storia amara, celata, esclusa dai riflettori di chi si interroga su altre specie non umane di un mondo che siamo soliti definire ‘normale’. La droga non è un mondo semplice da definire. La droga sono più mondi, più universi che non conoscono le leggi fisiche della gravitazione universale. Non esiste un centro di gravità. Bird era il nome con cui veniva chiamato Charlie Parker. Non è il nome di chi ama la gravità. A Charlie piaceva volare perché non amava sentirsi prigioniero delle leggi morali. Voleva sentirsene libero. I passaggi veloci di note simili al canto dei volatili di squisito interesse ornitologico sono espressione della volontà di un uomo che amava volare, raggiungere limiti che dio o chi per lui non ci ha concesso. Blasfemia o Hybris di un Icaro moderno? No. Come Rocco in Ghiaccio e Limone assistiamo alla creazione di una nuova legge morale che ci impedisce di autodefinirci deboli, esclusi, reietti o immondizia sociale. Una legge che ci rende tutti uguali davvero e non solo nelle iscrizioni litografiche dei tribunali. Non possiamo sempre e solo andare alla ricerca dei colpevoli o dei mostri a cui siamo soliti associarne le avversità e le responsabilità. La legge morale è responsabilità di tutti. Tutti siamo colpevoli di aver ucciso Mia Martini. Nell’ombra e nella luce delle caverne dalle quali siamo fuoriusciti cercando terra e acqua tutti comprendiamo ciò che è giusto o sbagliato. L’Inferno che immaginiamo oggi è un luogo vuoto, trionfo del nulla. I diavoli che cerchiamo tra noi in realtà sono solo degli angeli a cui hanno tagliato le ali. Angeli che cercano di ritrovare la forza di volare, come Bird. Angeli a cui è stato promesso un paradiso che credono di aver raggiunto, perché confusi dall’assenzio dal sapore del miele. Ma nel disincanto del veleno che confonde percezione sensoriale con percezione interiore, trovano l’abisso dell’horror vacui, l’Inferno vero fatto del nulla. Ghiaccio e limone non sono né la cura né la palliativa persuasione che alla sofferenza c’è sempre un rimedio. Ghiaccio e limone o ghiaccio o limone sono spada e scudo di un percorso dove l’eroe vince solo se a vincere è l’amore. Non accettiamo la sofferenza perché non vogliamo accettare che ci sia qualcosa che ci provochi dolore. La cura non è la soluzione alle cicatrici. Le cicatrici restano. Non le cancella un intervento estetico. Nemmeno il giudizio morale! La cura è un percorso, un impegno costante, un’attenzione particolare al momento, al qui e ora. La vita è un percorso intricato e non sempre generoso. Ma l’aspetto più stimolante e intrigante per chi vive con l’amore negli occhi è la sua straordinarietà. Essere unici, plurali, indivisibili come atomi è una qualità che ci appartiene sin dalla nascita, una qualità che deriva da un atto d’amore consapevole o inconsapevole. L’amore non è un atteggiamento che può essere compiuto da lontano, dalla distanza che intercorre tra due corpi o due organismi. Richiede vicinanza. Ghiaccio e limone sono ingredienti dell’amore, frutto di costanza, forza e determinazione. Nessuno ha mai dato loro la possibilità di credere che questo mondo, il nostro, sia un mondo dove ci apparteniamo tutti. Accettare la pluralità del dolore e della sofferenza è il messaggio più profondo che ho colto nell’incontro con questa lettura. Significa ritrovare quella speranza che abbiamo rimesso nel vaso di Pandora dal quale era uscita fuori, significa ritrovare un senso all’amore che ci unisce tutti e che ci impegna singolarmente, consapevoli che è proprio da quel male che deriva l’universo degli affetti e del piacere, inteso come abbraccio alla vita. Adesso, immaginiamo che il cielo stellato sia dentro di noi. Cosa diciamo alla legge morale? Io dico che a noi serve la legge dell’amore.