“Cesare Terranova fu uomo di alto sentire e di grande cultura: amava profondamente la sua Sicilia e viveva con angoscia la fase di trapasso che l’isola attraversava, dall’economia del feudo e rurale all’economia industriale e collegata con le grandi correnti di traffico europeo e mediterraneo. Ma egli era anche animato, oltre che da un virile coraggio, anche da infinita speranza, che scaturiva dalla sua profonda bontà d’animo: speranza nel futuro dell’Italia e della Sicilia migliori, per le quali il sacrificio della sua vita, fervida, integra ed operosa non è stato vano. Ancora una volta così la violenza omicida della delinquenza organizzata ha colpito uno degli uomini migliori, uno dei figli più degni della terra di Sicilia”.
Chi parla così è Sandro Pertini, l’ex presidente della Repubblica, commentando la notizia di un ennesimo cadavere eccellente a Palermo.
Questa volta, a essere trivellato di colpi e ad arricchire le vittime di Cosa Nostra è Cesare Terranova, magistrato tutto d’un pezzo e pronto a diventare il giudice istruttore all’interno della Commissione antimafia voluta dal capo della squadra mobile Boris Giuliano.
È il 25 settembre 1979. Sono circa le 8,30 del mattino. Il giudice è a bordo della sua macchina insieme all’agente di scorta Lenin Mancuso. All’improvviso, dopo pochi metri, arriva un’auto dalla quale alcuni uomini aprono il fuoco con una carabina Winchester e con delle pistole. Il magistrato ingrana la retromarcia nel tentativo di sottrarsi ai proiettili, mentre il maresciallo Mancuso impugna la Beretta di ordinanza. Viene esplosa una trentina i colpi. Il giudice muore sul colpo, Mancuso poche ore dopo in ospedale.
Una scena terribile, come se ne vedevano tante in quegli anni nel capoluogo siciliano, e a poco più di due mesi dall’assassinio proprio di Giuliano per mano di Leoluca Bagarella.
Siamo a fine anni ’70, e Palermo e la Sicilia tutta sono diventate uno dei centri principali dello spaccio internazionale di droga, e trafitte al cuore dalla seconda guerra di Mafia, quella che porterà i corleonesi a prendere in mano la cupola facendo fuori Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo, affini, e familiari.
Oltre a tutti coloro che potevano rappresentare un ostacolo.
E Cesare Terranova, nato il dì di Ferragosto del 1921 a Petralia Sottana, era uno di quegli scomodissimi. E poteva diventarlo ancora di più.
Il potere criminale palermitano lo aveva già segnato nella sua agenda nel 1969, l’anno in cui istituisce il processo a Bari nei confronti di Luciano Liggio, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Calogero Bagarella, e un centinaio di affiliati.
È il primo tentativo di mettere alla sbarra i corleonesi, di cui già dalla fine degli anni ’50 aveva intuito la pericolosità crescente.
Tuttavia, ci si trovava in un’epoca in cui l’associazione per delinquere di stampo mafioso non esisteva ancora penalmente (art. 416 bis c.p.), e l’unica arma che i giudici potevano utilizzare per ottenere una qualche incriminazione nei confronti degli appartenenti alle cosche mafiose era quella di provare l’esistenza di un’associazione criminale e, quindi, l’associazione per delinquere prevista dall’art. 416 codice penale.
Ci mette impegno, passione e dedizione in quel processo. Ma è tutto inutile, perché nella sentenza del 30 giugno 1969 sono tutti prosciolti per insufficienza di prove.
Il problema, però, è che il suo conto con Cosa Nostra si era appena aperto, e si arricchisce di un importante tassello nel 1974, quando fa arrestare a Milano “La Primula rossa” Luciano Liggio, riuscendolo poi a condannare all’ergastolo al susseguente processo.
Due anni più tardi, nel 1976, dopo due esperienze da parlamentare nelle fila del Partito comunista italiano in cui fu anche membro, insieme a Pio La Torre, della Commissione parlamentare antimafia, torna a Palermo prima come Consigliere della Corte d’Appello del Tribunale, e poi capo dell’Ufficio Istruzione del medesimo Tribunale.
E, nel 1979, era pronto anche a ricoprire lo stesso ruolo nella Commissione antimafia, ma lo hanno fermato prima. Prima che (ri)diventasse troppo scomodo.
Secondo Leonardo Sciascia, Cesare Terranova è stato ucciso perché “stava occupandosi di qualcosa per cui qualcuno ha sentito incombente o immediato il pericolo”.
Per trovare gli assassini bisogna aspettare il 1993. Mandante dell’omicidio è stato Luciano Liggio che, secondo quanto dichiarato da Tommaso Buscetta a Giovanni Falcone, lo aveva messo nel mirino già dal 1975.
Esecutori materiali sono stati Giuseppe Giacomo Gambino, Vincenzo Puccio, Leoluca Bagarella e Giuseppe Madonia.