Questa domenica, la terza del mese di ottobre, facciamo spazio a un misfatto tutto made in Italy derubricato e archiviato – e non è un sorpresa – come una semplice fatalità, “soltanto” una tragedia del mare causata dall’imperizia di chi era al timone di un piccolo naviglio stracarico di albanesi che cercava di aggiungere le coste pugliesi.
Un assaggio, insomma, di quello che sarebbe successo di lì a pochi anni, e che accade ancora oggi, nonostante leggi e normative nazionali e comunitarie.
L’affondamento della “Kater I Rades” resterà invece impressa e non solo nelle coscienze dei parenti delle vittime (ben 81 i corpi senza vita recuperati), come un’altra strage di Stato, attuata da una nave della Marina militare, “Sibilla”, in ossequio a una regola voluta dall’allora governo di centro-sinistra presieduto da Romano Prodi per arginare l’immigrazione clandestina di migliaia di albanesi, oltretutto in fuga da una guerra civile. Una norma che stabiliva il blocco militare del mar Adriatico e partorita con il primo ministro albanese dell’epoca, Sali Berisha. Senza l’assenso del Parlamento e senza che ancora fossero conosciute le regole d’ingaggio delle forze militari impegnate nell’operazione di “respingimento e dissuasione” dei profughi albanesi in fuga.
Tutto ha inizio alle 3 del pomeriggio del 28 marzo 1997 (il venerdì prima di Pasqua), quando salpano dal porto albanese di Valona più di 140 persone, intere famiglie – molte le donne, moltissimi i bambini – a bordo della Kater I Rades, una piccola motovedetta militare, talmente minuscola che poteva trasportare solo nove marinai.
Nel frattempo, però, da una settimana, l’Italia ha già schierato diverse navi nel Canale d’Otranto con il compito di bloccare quelle albanesi. La Kater I Rades ha da poco doppiato il capo dell’isola Karaburun, quando è intercettata dalla fregata italiana “Zeffiro” che naviga in acque albanesi e che le intima di invertire la rotta. Ma la motovedetta albanese non lo fa.
Accade, allora, che la Kater continua a navigare verso le nostre coste ed è presa in consegna da un’altra grande nave italiana, la Sibilla, che comincia ad avvicinarsi pericolosamente al naviglio albanese.
La tragedia, quindi, è dietro l’angolo: la prua della nave nostrana colpisce la Kater e l’urto sbalza molte persone in acqua. Poi un altro colpo e altri ancora, fino a quando, poco dopo le 19, affonda. Solo pochi, e soprattutto uomini, riescono a nuotare al buio, nelle acque gelide, fino a raggiungere la Sibilla.
L’anno dopo, al termine della inchiesta, il sostituto procuratore di Brindisi, Leonardo Leone De Castris, rinvierà a giudizio solo i comandanti delle due imbarcazioni, poi effettivamente condannati.