Libero Grassi, quella terribile mattina, camminava da solo per strada. E, soprattutto, libero e fiero, nonostante tutto.
Era il 29 agosto 1991. Ventisei anni fa. Erano le 7,30 del mattino e stava percorrendo via Vittorio Alfieri, a Palermo. Improvvisamente viene raggiunto da quattro colpi di pistola, e non c’è niente da fare.
Ma chi era Libero Grassi? Non era un uomo delle istituzioni, un poliziotto, un giudice, un prefetto, che aveva cercato di contrastare la cupola mafiosa siciliana. No, lui non era “collega” di Piersanti Mattarella, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Rocco Chinnici, di Beppe Montana, di Antonino Cassarà.
Si trattava “soltanto” di un imprenditore, nato a Catania nel 1924, ma che aveva osato sfidare Cosa Nostra in modo frontale e sottrandosi a una cosa terribile per l’epoca: il pizzo. L’estorsione.
Già, incredibile. Nella Palermo dei primissimi anni ’90, dove l’80 per cento del sistema imprenditoriale pagava anche se non piaceva proprio a tutti, ma c’era da rispettare l’accordo del “pagare tutti per pagare meno” e non bisognava rompere gli equilibri, c’era chi si ribellava.
Libero Grassi, appunto. Che voleva essere libero anche di fatto. Aveva finalmente ben avviato, non con poche difficoltà, la sua azienda, la Sigma (faceva pigiami, calzini, biancheria. Dava lavoro, onesto, ed esportava), che non voleva cedere, per nessun modo, agli strozzini mafiosi.
E Libero non si è rifiutato soltanto di pagare (già un gesto eroico all’epoca), ma si è resto protagonista di qualcosa di più eclatante. Quasi di miracoloso: denuncia.
Lo ha fatto con una lettera pubblicata su “Il Giornale di Sicilia” il 10 gennaio 1991.
Questa: “Volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere. Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al “Geometra Anzalone” e diremo no a tutti quelli come lui”.
Un paio di mesi dopo, “l’ignoto estortore” – i fratelli Avitabile – sono arrestati, e Libero Grassi non ha arretrato di un centimetro, anche andando in televisione.
Da Michele Santoro, a “Samarcanda”, aprile 1991.
Dove ha detto: “Io non sono pazzo: non mi piace pagare. È una rinunzia alla mia dignità di imprenditore”. Peccato, però, che in pochissimi lo hanno seguito.
Voleva essere libero fino in fondo, quindi. Aveva una dignità da salvaguardare.
Una moglie e dei figli da guardare a testa alta negli occhi.
Poi, però, è arrivata la mattinata del 29 agosto, quando il potere criminale siciliano – in primis Salvatore Madonia e Marco Favaloro – ha deciso che quella plateale sfida andava punita.
Dopo la sua morte, è varato il decreto che porta alla legge anti-racket 172, con l’istituzione di un fondo di solidarietà per le vittime di estorsione. Nonché Fai, Libero Futuro, le associazioni che aiutano gli imprenditori che denunciano, e AddioPizzo, una rete di commercianti “pizzo free” e di consumatori critici.
Libero Grassi, insomma, è riuscito a togliere quel velo di ipocrisia e paura che rendevano inespugnabile la piaga delle estorsioni.
Quel velo, però, non è stato ancora eliminato del tutto…