Quegli anni (non corriamo alcun rischio se li definiamo terribili) non li ha dimenticati proprio nessuno. E non solo perché li chiamano di piombo. Sono una pagina essenziale della cosiddetta “Prima Repubblica”, in cui stragi portate dalle forze estremiste di destra si alternavano a quelle estremiste di sinistra. In tutto questo, c’era un Paese, lontanissimo dal centrismo di fine anni ’50 e inizio anni ’60, che chiedeva – anzi pretendeva – cambiamenti e riforme sociali e di mettere un po’ in discussione il centralismo dello stato borghese e capitalista.
In qualunque modo possibile, purtroppo. E di morti ammazzati, nello Stivale, non se ne contano. Poliziotti, giornalisti, magistrati, politici di grande levatura (leggasi Aldo Moro), sindacalisti, e militanti, di sinistra e di destra che siano.
Già, ed è questo il problema. In una Italia che non ha mai fatto i conti seriamente con il proprio passato, i cadaveri – eccellenti e non – tali perché politicamente vicino all’ei fu Partito fascista, sono passati in secondo piano.
In una sorta di oblio costruito a tavolino.
Chi ricorda, allora, il nome di Enrico Pedenovi? Era un avvocato, certo, ma soprattutto un consigliere regionale e membro del Comitato centrale del Movimento sociale italiano. Siamo a Milano, tanto per capire.
E la mattina del 29 aprile 1976, esattamente un anno dopo la morte di Sergio Ramelli, giovane appartenente al “Fronte della Gioventù” e fatto fuori da un commando che non sapeva nemmeno chi fosse (clicca qui per articolo https://bit.ly/31lcWVU), anche lui fa la stessa fine. Con colpi di arma da fuoco mentre sta per salire in macchina.
Tutta colpa della barbara legge dell’anticomunismo militante.
“Enrico Pedenovi – racconta Luca Telese ricostruendo l’accaduto – esce di casa, come sempre, alle 7,45 del mattino. Abita in viale Lombardia 20, e ogni giorno sale sulla sua Fiat 128 bianca per andare in macchina fino allo studio di via Francesco Sforza 14. Mette in moto, si ferma al distributore per fare il pieno di benzina. non sa che i killer lo stanno seguendo e – conoscendo il suo itinerario abituale -hanno già deciso come e dove colpirlo. Rimette in moto e si ferma ancora una volta. Questa volta davanti all’edicola per ritirare la sua abituale mazzetta di quotidiani. Risale in macchina, si ferma a leggere le prime pagine proprio lì, sul sedile, perché gli piace arrivare in ufficio sapendo quello che è successo. Alle sue spalle adesso è apparsa una Simca 1000 verde bottiglia, con a bordo tre ragazzi. Appena Pedenovi chiude lo sportello, due di loro scendono dalla macchina e si affiancano ai due lati della 128, estraggono delle pistole, forse a tamburo perché non lasceranno colpi a terra. È un tiro incrociato senza scampo, da destra e da sinistra: il consigliere regionale missino viene letteralmente crivellato di colpi. Non lasciano nessuna traccia, e, contrariamente alla prassi delle Brigate Rosse e di Prima linea, non rivendicheranno mai il loro delitto”.
Quel pomeriggio avrebbe partecipato alla commemorazione proprio di Ramelli.
Gli autori del fatto saranno individuati e condannati: Enrico Galmozzi, Bruno Laronga, Giovanni Stefan. Chi sono? Militanti armati dei Comitati comunisti per il potere operaio, il gruppo più radicato e agguerrito dell’Autonomia organizzata.
La fine di Pedenovi (ma questo lo si è saputo qualche tempo dopo) sarebbe stata decisa a caldo, non era premeditata, e come risposta al ferimento a morte di Gaetano Amoroso, un operaio e militante comunista, avvenuto due sere prima.