Poche parole. Queste: “Uno non deve mai amarsi al punto da evitare ogni possibile rischio di morte che la storia gli pone davanti. Chi cerca in tutti i modi di evitare un simile pericolo, ha già perso la propria vita”.
Basta questa frase, così profonda e intensa, per raccogliere una vita. Quella di Oscar Romero, l’arcivescovo fatto popolo, e ucciso perché voleva difenderlo, fino all’ultimo, quel popolo. Salvarlo dalla tirannia che aveva invaso e stava distruggendo il suo Paese, San Salvador. Tirarlo fuori dalle barbarie, soprattutto umana e morale, che chi aveva messo in piedi quel regime stava portando avanti. Portarlo, per quello che era possibile, sulla retta via.
Ma il potere, quel potere che tanto combatteva, non lo ha consentito, uccidendolo nel modo più terribile possibile.
È il 24 marzo 1980. Romero sta celebrando messa nella cappella dell’ospedale della sua città. Nell’Omelia ha appena lanciato, ancora una volta, pesanti critiche contro il Governo. Ed ecco allora che un membro dei cosiddetti “squadroni della morte”, gli spara un colpo di pistola che lo colpisce in piena giugulare, non lasciandogli scampo.
Ma chi è stato, in realtà, questo integerrimo uomo di fede, dal 2015 beato della Chiesa cattolica?
Oscar Romero nasce a Ciudad Barrios di El Salvador da una famiglia modesta il dì del Ferragosto 1917. Dopo un primissimo avvio alla carriera di falegname, già a 13 anni entra nel seminario minore di S.Miguel e quindi nel seminario maggiore di San Salvador retto dai Gesuiti. All’età di 20 anni fa il suo ingresso all’Università gregoriana a Roma dove si licenzierà in Teologia nel 1943, un anno dopo essere stato ordinato sacerdote. Rientra in patria per dedicarsi con passione all’attività pastorale come parroco.
Il suo operato non passa nell’oblio, tanto che nel 1977, quando ha 59 anni, diventa arcivescovo della sua diocesi, quella di San Salvador.
E assume questa carica proprio nel periodo in cui nel Paese infierisce una cruentissima repressione sociale e politica. Lì, in quello Stato dell’America centrale, sono diventati quotidiani gli omicidi di contadini poveri e oppositori del regime politico, nonché i massacri compiuti da organizzazioni paramilitari di destra, protetti e sostenuti dal sistema politico. Sono gli anni in cui un altro Romero, ma il generale Carlos H. è proclamato vincitore, grazie a brogli elettorali, delle elezioni presidenziali.
E, inizialmente, la nomina di mons. Romero come arcivescovo non spaventa il potere, perché, ritenuto un uomo di studi, un soggetto non impegnato socialmente e politicamente, un conservatore, non avrebbe dovuto creare nessun grattacapo.
Già, non avrebbe dovuto creare. Il problema, però, è che un uomo di fede pastorale come lui non può ignorare i fatti tragici e sanguinosi che gli accadono intorno. Ed ecco, allora, che pian piano ma in modo sempre più incessante, nei suoi discorsi mette sotto accusa il potere politico e giuridico di El Salvador.
Istituisce una Commissione permanente in difesa dei diritti umani. Le sue omelie, ascoltate da moltissimi parrocchiani e trasmesse dalla radio della diocesi,vengono pubblicate sul giornale “Orientaciòn”.
È martellante, questo arcivescovo, soprattutto quando invita alla riflessione, alla presa di coscienza dei propri diritti e all’azione mediata, mai gonfia d’odio. E mai alla lotta armata.
Il 23 marzo 1980, il giorno prima del suo assassinio, si permette il lusso di dire queste parole: “Vorrei fare un appello particolare agli uomini dell’Esercito e in concreto alla base della Guardia nazionale, della polizia, delle caserme: Fratelli, appartenete al nostro stesso popolo, uccidete i vostri stessi fratelli contadini; ma rispetto a un ordine di uccidere dato da un uomo deve prevalere la legge di Dio che dice “Non uccidere”. Nessun soldato è tenuto ad obbedire ad un ordine contrario alla Legge di Dio. Vi supplico, vi chiedo, vi ordino in nome di Dio: “Cessi la repressione!”. Chiede, in definitiva, ai soldati e a tutte le forze armate del Paese di non eseguire gli ordini che sono contrari alla morale umana.
La mattina dopo, il 24 marzo di 38 anni fa, non gli lasciano scampo. “Se mi uccideranno – aveva detto in una precedente occasione – risorgerò nel popolo salvadoregno”.
E non è un caso che il dì dei suoi funerali c’è una folla oceanica accorsa per l’ultimo abbraccio. Durante le esequie, però, l’esercito apre il fuoco sui fedeli senza pensarci due volte, compiendo un massacro.
La Chiesa cattolica, seppur forse con ritardo, non ha dimenticato questo suo pastore. Nel 1997 apre la causa di beatificazione e lo nomina servo di Dio, ma soltanto nel 2015, con Papa Francesco, si arriva alla beatificazione.