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Home » A spasso con la Storia/Il Titanic della flotta mercantile italiana. La triste storia dell’Andrea Doria

A spasso con la Storia/Il Titanic della flotta mercantile italiana. La triste storia dell’Andrea Doria

Il 25 luglio 1956 il transatlantico nostrano affonda colpito da una nave svedese. E non è mai stato recuperato

La Redazione by La Redazione
28 Luglio 2018
in Cultura e Spettacolo
A spasso con la Storia/Il Titanic della flotta mercantile italiana. La triste storia dell’Andrea Doria
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Quel giorno. Quelle immagini. Quell’accaduto, e anche il post accaduto.

Tutto, anche se sono passati 62 anni da allora, è tutto limpido, ben conservato e ancora vivo nella mente di tanti.

Il 25 luglio 1956. Il giorno nero, nerissimo, dell’Andrea Doria. E in cui quel gioiello della navigazione italiana affonda per sempre. Senza mai fare più ritorno. In una delle tante, tantissime, storie tristi che siamo costretti a raccontare.

 

 

 

Per i pochi che non lo sanno, la Andrea Doria era una nave della Società italia navigazione, un fiore all’occhiello della flotta mercantile italiana e il simbolo della rinascita del Belpaese dopo i disastri della Seconda guerra mondiale.

Anche perché è varato ben presto la fine delle ostilità belliche, nel giugno 1951, grazie alla intuizione e grande capacità dei cantieri Ansaldo di Sestri Piemonte, nel genovese, anche se il primo viaggio è di due anni più tardi.

Nel 1956, quindi, ha soltanto cinque anni di vita.

 

 

Quel terribile giorno estivo del 1956 la nebbia era fitta a sud dell’isola di Nantucket, di fronte alla costa del Massachussets, negli Stati Uniti. Il transatlantico italiano è alla sua ultima notte di navigazione prima dell’arrivo nel porto di New York.

Al timone del transatlantico lungo 213 metri c’era un veterano della Marina, il comandante Pietro Calamai. Genovese, aveva prestato servizio nella Regia Marina in tutte e due le guerre mondiali, ed era a capo di uno equipaggio composto da 580 uomini. Tutti insieme governano una nave dotata dei più avanzati standard di sicurezza, primo tra tutti un impianto radar all’avanguardia.

Proprio per questo, allora, nessuno era preoccupato dalla presenza di spessi banchi di nebbia a ridosso della costa nordamericana anche perché tutte le misure di sicurezza erano state attivate.
Sempre quel maledetto giorno, giusto qualche ora prima era salpato da New York il transatlantico svedese “Stockholm”, diretto a Goteborg su una rotta parallela e contraria a quella dell’Andrea Doria. Come prevedibile, i sistemi radar delle due navi indicano l’avvicinamento ad una distanza di alcune miglia. Si avvicinano velocemente l’una all’altra, ma il problema è che il radar del transatlantico svedese non è tarato correttamente, valutando una distanza maggiore dall’Andrea Doria.

L’inevitabile è in agguato e accade di lì a poco. Nonostante una manovra disperata di Calamai, i due colossi del mare impattano poco dopo le 23,10 e la prua rinforzata dello Stockholm squarcia la chiglia del transatlantico italiano, sfondando numerose cabine passeggeri e uccidendone 46 sul colpo. Nove, invece, sono i morti a bordo della nave svedese, tra l’equipaggio.
Pochi minuti e l’Andrea Doria si inclina di 15 gradi a dritta. Troppo per permettere l’evacuazione rapida dei passeggeri. Nonostante le difficoltà, hanno inizio le operazioni di salvataggio più grandi dalla tragedia del Titanic, che comunque riescono a portare in salvo i passeggeri.

 

 

 

Alle 2 del mattino l’inclinazione dell’Andrea Doria è sempre più marcata. A bordo della nave italiana è rimasto unicamente il comandante Calamai, che solo dopo una lunga azione di convincimento dei suoi ufficiali deciderà di mettersi in salvo.

L’orgoglio della Marina mercantile italiana si è inabissto alle 10 del mattino dopo, quello del 26 luglio.

 

 

Il processo che è seguito dopo l’incidente ha portato a un compromesso tra le assicurazioni delle due società di navigazione, ma sulla stampa è emersa una campagna denigratoria da parte degli svedesi nei confronti di Calamai, ritenuto responsabile di una manovra non convenzionale e di imperizia nelle operazioni di soccorso.

Per fortuna, queste accuse non hanno mai avuto seguito.

 

 

Il problema, ben più grave, è che la stessa sorte è accaduta anche ai tentativi di far tornare in superficie il gioiello italiano, che ancora oggi giace a 75 metri di profondità.

 

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