Il 9 gennaio 1950 a Modena non lo hanno mai dimenticato, tanto è vero che è stato ribattezzato “Bloody Monday”, lunedì di sangue. Quello dei sei manifestanti, sei operai che hanno osato protestare contro un licenziamento dal chiaro profumo politico e, quindi, ingiusto.
Un lunedì funesto che però è simbolo vivo e concreto dell’Italia di 70 anni fa. Un Paese appena uscito dalla dittatura ventennale fascista e dalle rovine della seconda guerra mondiale, da dove ci ritroviamo in ginocchio sotto tutti i punti di vista. E che, storicamente parlando, ha segnato e segna la politica dello Stivale, da allora sempre a metà, per lo meno dimezzata, legata mani, corpo e piedi a quello che succede – e vogliono – (oltre)oceano Atlantico. Agli Stati Uniti d’America. Con tanto di documenti finalmente secretati che lo mettono persino nero su bianco.
In questo scenario, si vive fortissima la contrapposizione tra la Democrazia cristiana e il Partito comunista, opposti anche per modo di vedere la società, e in un confronto talmente aspro che le fabbriche e i posti di lavoro diventavano un luogo di confronto politico e sociale, in cui i lavoratori puntavano a ottenere maggiori diritti. Diritti spesso pagati a caro prezzo, con rivolte sedate con e nella violenza.
Ma accade anche un’altra cosa. Nell’Italia immediatamente precedente il boom economico, gli imprenditori puntano a non far diventare fabbriche e posti di lavoro dei luoghi sindacalizzati e di contropotere operaio e contadino. E tutto questo si riflette a Modena e provincia, dove nelle imprese sono licenziati centinaia di attivisti e sindacalisti.
Ecco, Modena, allora. Già dal 1938 vi era la “Società anonima fonderie riunite ghisa malleabile”, una delle attività industriali del gruppo siderurgico guidato dall’imprenditore locale Adolfo Orsi e dove, dopo gli anni di commesse pubbliche “acquistate” grazie al fascismo, al termine del conflitto qualcosa cambia. I lavoratori si organizzano e riprendono le attività sindacali vietate dal fascismo all’interno delle fabbriche, e perciò si torna a chiedere maggiori diritti per gli operai, tolti durante il fascismo.
Ne nasce, allora, una lunghissima vertenza e un durissimo braccio di ferro (azienda, seppur in costante crescita economica e di fatturato, minaccia di licenziare i dipendenti più sindacalizzati soppiantandoli con forza lavoro malleabile reclutata nelle campagne venete da preti e Cisl, il sindacato filo-democristiano, e le retribuzioni sono sempre più basse), che portano a scioperi a oltranza e un clima sempre più teso.
Il 9 gennaio, quindi, è la naturale conseguenza di tutto. I dipendenti – e i loro supporters, per un totale di 10mila persone protestanti – sono pronti a occupare lo stabilimento e Orsi decide di usare la forza. Quella dell’ordine, per intenderci. Dai terrazzi della fabbrica i carabinieri cominciano a mitragliare i lavoratori e chi li sostiene, sparando ad altezza d’uomo anche dai blindati. Il bilancio è pesante: sei morti (di età compresa tra i 43 e i 21 anni, ma nessuno fa parte delle maestranze), un numero mai precisato di feriti e 34 arrestati.
Strage premeditata? Una ennesima provocazione al Partito comunista?
Quel che è certo è che dopo il gravissimo accaduto – al funerale, due giorni dopo, partecipano 300mila persone, compresi i leader della sinistra politica e sindacale – si stipula un nuovo contratto sindacale, la riapertura dello stabilimento delle Fonderie Riunite senza alcun licenziamento, mentre il successivo processo si è concluso con nessuna condanna per quell’eccidio e per tutte le vittime di quegli anni di proteste (62 lavoratori ammazzati di cui 48 comunisti; 3.126 feriti di cui 2.367 comunisti; 92.169 arrestati di cui 73.870 comunisti), ma con le famiglie delle vittime che hanno ottenuto un maxi risarcimento.