È morto a Roma Giuseppe Sorgente, il bitontino che, a vent’anni, partì con la divisione di Fanteria “Vicenza” per il fronte russo in una campagna che si rivelò disastrosa per l’esercito italiano, sconfitto e costretto alla ritirata dai sovietici.
“Andare in guerra non piace a nessuno. È stato un dovere che ho pagato a caro prezzo. Ma il dovere è considerato tale quando è seguito da un diritto, altrimenti è sfruttamento al pari delle bestie”.
Fu così che, nel suo libro “Un fante in Russia”, commentò una delle pagine più tristi della storia dell’intervento militare italiano nella Seconda Guerra Mondiale: la spedizione militare in Russia e la vicenda dell’Armir (acronimo di Armata Italiana in Russia), come fu chiamata l’8^ armata italiana che, tra luglio 1942 e marzo 1943, operò sul fronte orientale, in appoggio alle forze tedesche della Wehrmacht impegnate sul fronte di Stalingrado. Fu un massacro, oltre che l’inizio della disfatta per le forze dell’Asse.
Una vicenda che, nel 2019, raccontò anche su Rai Storia, nel programma “Passato e Presente”, condotto da Paolo Mieli.
Era solo un ragazzo di venti anni, come tanti altri che, però, non ebbero la fortuna di tornare a casa. Tra i soldati, chi non perì nei combattimenti, fu sopraffatto dal Generale Inverno, come i russi sono soliti chiamare il loro periodo invernale, caratterizzato da temperature molto basse che, in più occasioni, hanno aiutato a sconfiggere invasori non abituati a quel gelo, come fu appunto per italiani e tedeschi. Migliaia furono i soldati caduti, uccisi dal nemico o congelati. Tanti perirono durante la ritirata o durante la prigionia, dopo essere stati catturati dai russi.
«Partimmo da Bergamo una mattina nei primi di luglio 1942. Ci buttarono nei vagoni per 12 giorni di viaggio, attraversando 5mila chilometri» ricordò Sorgente che nel suo libro descrisse i combattimenti e il difficilissimo ritorno in patria, cercando di fuggire ai tantissimi pericoli lungo il cammino. Ripercorse quei momenti vissuti in bunker “meno ospitali di ovili”, infestati da pidocchi e topi che mangiavano quel poco pane che era a disposizione, con poca acqua da bere e per lavarsi e poca legna da ardere per difendersi dalle temperature gelide. Denunciò la disorganizzazione con cui la campagna di Russia fu affrontata, il comportamento di ufficiali che abbandonarono i loro reparti pensando solo a salvarsi, l’estenuante marcia di migliaia di giovani soldati come lui che, nella neve e nel buio, avevano come punto di riferimento solo il proprio compagno davanti a loro. Senza dimenticare la durezza della battaglia, in cui solamente chi era dotato di grande forza d’animo e lucidità aveva qualche possibilità di sopravvivere.
Lo ricorda così il professor Nicola Pice: «Avrebbe compiuto cent’anni il 10 luglio e puntualmente, dopo che presentammo il suo libro nella Sala degli Specchi, più volte nel corso dell’anno mi chiamava al telefono e, con la sua riconoscibilissima voce bonaria, avviava una lunga chiacchierata, per avere notizie di Bitonto: sentiva di rinsaldare così il legame con la sua città natia che fortemente avvertiva e mai si era allentato nonostante la lontananza da lunghi anni».