Il calvario invisibile e interminabile di A. è lungo quanto lo spazio che separa l’ospedale dalla stazione della Bari nord.
Dopo aver passato la notte seduto su una sedia di plastica di una sala d’attesa di qualche reparto ormai in disarmo del nostro ex nosocomio (“ma credi che sia bello stare così? e Chi dorme? La mattina mi alzo sempre con le ossa rotte“), A. prende le sue sdrucite robe, ne fa un malinconico fagotto e naso sulla punta delle scarpe e passo tardo e lento, si avvia verso la stazione.
Sulle spalle mille croci tremende, nell’anima altrettante lame confitte dolorosamente.
Si ferma ad un sospiro dai binari, osserva sferragliare treni di qua e di là (“Sì, ma dove vado? Dove? Dove? Non ho niente, non ho niente“) e va avanti e indietro su quel lembo estremo di via Matteotti.
A., perduti i genitori troppo presto, non ha casa né lavoro, vorrebbe andare da parenti baresi (lui dice), che però teme non lo accolgano più, messo così com’è.
“Ho lavorato in passato e vorrei avere la possibilità di mettere in pratica quel che ho imparato“, quasi sussurra stanco.
Parla in perfetto italiano, segno che ha fatto buoni studi.
E stupisce il fatto che non accetti neppure il danaro che qualcuno, di passaggio, prova a donargli: “Che me ne faccio io dei soldi? Voglio solo avere un tetto e una occupazione. Il resto non mi interessa“.
Certo, avrà anche sbagliato nella sua vita, ma chi può dire di non aver mai sbagliato?
E, comunque, ha pagato, come capita in Italia soprattutto a chi è fragile e solo.
Molti altri, spesso, la fanno franca.
Poi, si rimette a guardare i vagoni che fuggono via e qualche rondine che, cantando, si perde nell’azzurro. Sente qualcosa nel petto e solo per dignità non piange. O perché le lacrime sono finite da tempo e il deserto lo abita dentro.
Finché non scende la sera e torna nei corridoi bianchi e muti per trovare una pace impossibile.
Ma cosa o chi attende, in realtà, A.?
Forse, soltanto qualcuno che gli faccia una carezza al cuore…