Una tragedia immane che ha lasciato una ferita, profonda e difficilmente rimarginabile, nel cuore di una famiglia bitontina. Ma che la nostra comunità ha quasi colpevolmente rimosso.
Oggi, quarant’anni fa, nel corso di una rapina, veniva ucciso il gioielliere Michele Milella, titolare di uno degli esercizi commerciali più prestigiosi di Bitonto e non solo. Le indagini che seguirono non portarono ad alcunché: sì, furono attenzionati probabili responsabili, ma l’assassino non fu mai individuato.
Ma ricostruiamo i fatti.
È il 9 novembre 1982. Si respira aria natalizia per le strade di Bitonto. Ore 17.20. Fra le prime ombre della sera, un uomo entra in quella che era la più bella gioielleria della città e non solo. Chiede con gentilezza di vedere qualche monile. La fedele signora Vanda Urbano e il titolare Michele Milella s’apprestano, con la consueta gentilezza, a servire l’avventore.
D’improvviso, fanno irruzione altri due uomini. Urlano con accento tarantino o salentino. Uno di loro ha una violenta colluttazione col titolare, che aveva reagito d’orgoglio per difendere la sua vita, i suoi sacrifici, il futuro suo e dei suoi cari. L’anonimo malvivente prima lo gambizza e, poi, mentre insieme ai suoi complici s’appresta a fuggire via su un’Alfa GTV rubata il giorno prima a Molfetta, con preziosi per un valore di 150 milioni di lire circa, colpisce a bruciapelo Michele al petto e alle gambe. Spara per ammazzare. Dal retrobottega emerge il figlio Sabino, che cerca di tenere in disparte il fratellino Enrico. Inutile la corsa in ospedale.
Un uomo ucciso dai rapinatori non s’era mai visto a Bitonto. Mai. Lutto cittadino. Una folla incredibile alle esequie. Il vescovo Padovano celebra il funerale nella Chiesa di San Francesco di Paola. Le istituzioni promettono vicinanza e solidarietà.
Gli inquirenti avviano le indagini su quella banda, che sta mettendo a ferro e fuoco tutta la provincia. Un bitontino viene anche arrestato e, in seguito, scagionato da qualsiasi accusa. Poi, il silenzio.
“Eppure, mio padre potrebbe essere considerato la prima vera vittima di mafia. Perché non intitolargli una strada?”, si chiede amareggiato il figlio Sabino, che tanto si è battuto perché emergesse la verità. “Ai posteri l’ardua sentenza“, verrebbe da scrivere manzonianamente.
Ma il problema, grave, serio e irrimediabile, è che, rispetto all’epoca in cui avvenne il dramma la posterità è già passata da un bel po’ ed ha visto noi e chissà quante altre generazioni di concittadini protagonisti, senza che nulla si facesse…