Riproproniamo un articolo pubblicato sul periodico “da Bitonto” del Gennaio 2014. Purtroppo, da allora non è cambiato nulla…
Sabino Milella, chioma al vento e volto di marinaio antico, che con sorriso amaro ha affrontato terribili tempeste, ha una ferita sul cuore che nessuno vede. Gliela incisero più di trent’anni fa spietati uomini del male, che sono rimasti sconosciuti.
Bitonto, Italia, primi anni Ottanta. La crisi flagella la quotidianità, si circola a targhe alterne per risparmiare sul petrolio, il terrore, rosso e nero, serpeggia ovunque fra stragi e P38, presidente del consiglio fugace come tanti, troppi è lo storico Giovanni Spadolini, scricchiola la poltrona della nostra nazione fra i grandi, la “scala mobile” non è un marchingegno moderno per evitar salite, ma una preoccupazione in più per i salariati, la Comunità Europea già s’esercita in tagli. Persino nel calcio si bara con le scommesse.
Però, arriva il trionfo al Mundial di Espana per i ragazzi del vecio Enzo Bearzot ed è amnistia. Cose di casa nostra. Al “Santiago Bernabeu”, in tribuna d’onore, a pochi metri dal Presidente di tutti Sandro Pertini, che nella notte vivida d’emozioni mulina tre dita, come i gol che gli azzurri hanno segnato ai tedeschi di Rummenigge, siede un bitontino. È il gioielliere Michele Milella, ospite del patron nipponico Hattori della Seiko, l’azienda che assicura i cronometri ufficiali della manifestazione. È il meritato premio per quest’uomo che, venuto da Bari perché innamoratosi della giovane Maria Nacci, figlia d’uno storico orefice con bottega nel centro storico, sogna di fare di via Repubblica la via Sparano della sua giovinezza, quando cresceva nutrendosi degli insegnamenti della famiglia Trizio, una garanzia nel settore.
Allora, l’arteria del commercio odierna non era stracolma di negozi…
È il 9 novembre 1982. Si respira aria natalizia per le strade di Bitonto. Ore 17.20. Fra le prime ombre della sera, un uomo entra in quella che era la più bella gioielleria della città e non solo. Chiede con gentilezza di vedere qualche monile. La fedele signora Vanda Urbano e Michele s’apprestano a servire l’avventore. D’improvviso, fanno irruzione altri due uomini. Urlano con accento tarantino o salentino. Uno di loro ha una violenta colluttazione col titolare, che aveva reagito d’orgoglio per difendere la sua vita, i suoi sacrifici, il futuro suo e dei suoi cari. L’anonimo malvivente prima lo gambizza e, poi, mentre insieme ai suoi complici s’appresta a fuggire via su un’Alfa GTV rubata il giorno prima a Molfetta, con preziosi per un valore di 150 milioni di lire circa, colpisce a bruciapelo Michele al petto e alle gambe. Spara per ammazzare. Dal retrobottega emerge il figlio Sabino, che cerca di tenere in disparte il fratellino Enrico. Inutile la corsa in ospedale. Un uomo ucciso dai rapinatori non s’era mai visto a Bitonto. Mai. Lutto cittadino. Una folla incredibile alle esequie. Il vescovo Padovano celebra il funerale nella Chiesa di San Francesco di Paola. Le istituzioni promettono vicinanza e solidarietà. Gli inquirenti avviano le indagini su quella banda, che sta mettendo a ferro e fuoco tutta la provincia. Un bitontino viene anche arrestato e, in seguito, scagionato da qualsiasi accusa. Poi, il silenzio.
Il racconto di Sabino è lacerato da cheta rabbia e sopita sofferenza: “Ma perché non ricordare chi si è ribellato al sistema mafioso? Lo Stato ha fallito. Le amministrazioni hanno fallito. I politici hanno fallito. Le forze dell’ordine hanno fallito. Io ero reduce dal 5° Battaglione Paracadutisti “El Alamein” e mi sono ritrovato davanti poliziotti strani e magistrati ancora di più. Chi ha voluto che si dimenticasse questa tragedia, accaduta lo stesso giorno del sequestro di Mastrangelo, lo scorso anno? Qualcuno ha voluto che questa città fosse omertosa, perché vincessero le forze del male e la bellezza venisse stuprata ogni giorno. In quarant’anni è peggiorata e tanto. Perché le vecchie generazioni non hanno raccontato questo dramma infinito ai più giovani? Noi non abbiamo saputo mai la verità. Anzi, siamo stati corrosi dal dubbio che ci perseguitava, perché quando succedono queste cose i primi indagati sono i famigliari. Eppure, papà da sindacalista aveva respinto al mittente anche minacce estorsive, poi abbiamo saputo. Siamo stati a Milano, Roma, Bari, a visionare merci trafugate durante la rapina: ma niente. Noi abbiamo reagito, abbiamo continuato ad andare avanti con solo l’affetto della gente comune. Mia madre si è consumata di dolore, pregando ogni mattina s’è chiusa nella solitudine del cuore fino ad ammalarsi di tumore”.
“Chi ha paura della dignità? Perché la città continua a dimenticare e a fingere? Avrei voluto intitolargli sulle Murge “Lamasseriola – U Jazze”, ma è stato perfino rifiutata la mia donazione per farci la Casa d’accoglienza “Raggio di sole”, ma nulla. Così ho aperto lo spazio a tutti con la comunità Dianova. Ma quanto può costare dedicare una strada a mio padre, al gioielliere Michele Milella, che per primo si ribellò alla mafia, pagando con la sua stessa vita?” e le parole e gli interrogativi di Sabino sono come lame crocifisse sull’anima della città…